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Virus della Mente
Inserito Venerdì 28 gennaio 2005
|
|
di Richard Dawkins
Il porto cui tendono tutti i meme è
la mente umana, ma la mente umana è in se stessa un artefatto creato nel
momento in cui i meme ristrutturano un cervello umano per renderlo un
habitat migliore per loro. Le strade di ingresso e uscita vengono modificate
per adattarsi alle condizioni locali, e vengono rinforzate da diversi
meccanismi artificiali che incrementano fedeltà e prolissità di
duplicazione: una mente nativa della Cine è sensibilmente diversa da una
nativa della Francia, la mente di un letterato è diversa da quella di un
illetterato. Ciò che i meme offrono all’organismo in cui risiedono è un
incalcolabile ammontare di vantaggi –con qualche cavallo di Troia messo lì,
per fare buon peso…
Daniel Dennett, Consciousness
Explained
1 Duplicazioni
Una bella bambina al mio fianco, di sei anni, la
pupilla degli occhi di suo padre, crede che Thomas the Tank esista davvero.
Crede in Babbo Natale, e per quando sarà grande la sua ambizione è di diventare
una Fata dei Dentini. Come i suoi compagni di scuola si fida della solenne
parola dei rispettabili adulti, che le Fate dei Dentini esistono e che Babbo
Natale esiste. La bimba ha un’età in cui crede a qualunque cosa le si dica. Se
le parlate di streghe che mutano principi in rospi vi crederà. Se le dite che i
bimbi cattivi arrostiscono per l’eternità all’inferno avrà gli incubi. Ho appena
scoperto che, senza il consenso di suo padre, questa dolce, fiduciosa e
credulona bambina di sei anni sta per essere mandata, per un corso di istruzione
settimanale, da una suora cattolico-romana. Che possibilità ha?
Una bambina è modellata dall’evoluzione per
assorbire la cultura della sua gente. Com’è risaputo, è questione di pochi mesi
prima che impari i dati essenziali del loro linguaggio. Un vasto dizionario di
parole da pronunciare, un’enciclopedia di informazioni di cui parlare, regole
sintattiche e semantiche assai complesse per dare ordine al parlato: tutto ciò
viene trasferito da cervelli più anziani nel suo, prima che raggiunga metà della
sua taglia di adulta. Se si è programmati per assorbire informazioni utili ad
altissimo ritmo, è difficile al tempo stesso escludere informazioni perniciose e
dannose. Con un numero così elevato di bit mentali da caricare, così tanti
codici mentali da replicare, non meraviglia che i cervelli dei bimbi siano
creduloni, praticamente aperti a ogni suggerimento, vulnerabili al
sovvertimento, facili prede di fanatici alla Moon, scientologi e suore. Come
malati immuno-deficienti, i bambini sono totalmente esposti a infezioni mentali
che gli adulti sono invece in grado di spazzare senza alcuno sforzo.
Anche il DNA include codici parassitali. Il
meccanismo cellulare è alquanto abile nel copiare il DNA. In quegli aspetti che
riguardano il DNA, esso sembra avere un desiderio smanioso di copiare, sembra
ansioso di essere copiato. Il nucleo della cellula è un paradiso per il DNA,
alle prese con una un macchinario di duplicazione sofisticato, rapido e preciso.
Il meccanismo cellulare è così ospitale nei
confronti della duplicazione del DNA che non sorprende affatto che le cellule
diano alloggio ai parassiti del DNA ---virus, viroidi, plasmidi e una marmaglia
di analoghi viaggiatori genetici. Il DNA parassitale si unisce persino senza
cuciture negli stessi cromosomi. I "geni che saltano" e dei tratti di "DNA
egoista" si scindono o si copiano dai cromosomi e si attaccano altrove. È
pressoché impossibile distinguere gli oncogeni dai geni legittimi tra i quali
essi sono congiunti. In momenti evolutivi, probabilmente si verifica un traffico
continuo da geni "regolari" a geni "fuorilegge" e viceversa (Dawkins, 1982). Il
DNA è solo DNA. L’unica cosa che distingue il DNA virale dal DNA ospite è il suo
metodo supposto di passare a generazioni future. Il DNA ospite, quello
"leggitimo", è solo DNA che aspira a passare alla generazione successiva
attraverso la via ortodossa dello sperma o dell’uovo. Il DNA "fuorilegge", o
parassita, è solo DNA che cerca una strada più veloce, meno cooperante, per il
futuro, tramite una gocciolina spremuta o una macchia di sangue, piuttosto che
tramite sperma o uovo.
Per i dati su un floppy disc, un computer è un
paradiso nello stesso modo in cui i nuclei della cellula fremono dall’ansia di
duplicare il DNA. I computer e i loro associati, i lettori di dischi e nastri,
sono progettati badando soprattutto all’alta fedeltà. Come accade per le
molecole di DNA, i byte magnetizzati letteralmente non "vogliono" venire copiati
fedelmente. Eppure, potete scrivere un programma di computer che faccia i suoi
passi per duplicarsi. Non solo duplicarsi all’interno di un computer, ma anche
diffondersi ad altri computer. I computer sono assai abili nel copiare byte e a
obbedire ciecamente alle istruzioni contenute in quegli stessi byte, che sono
specchietti per le allodolev per i programmi che si autoreplicano: del tutto
esposti a sovvertimento da parte di parassiti del software. Ogni persona
familiare con la teoria dei geni egoisti e dei meme avrebbe dovuto sapere che i
moderni personal computer, con il loro traffico promiscuo di floppy disc e link
di e-mail, sembravano andare in cerca di guai. L’unico aspetto sorprendente
nell’attuale epidemia di virus da computer consiste nel fatto che ci abbia messo
tanto ad arrivare.
2 Virus di Computer: Un
modello per un’epidemiologia informatica
I virus dei computer sono brani di codice che si innesatno in programmi preesistenti e legittimi e ne sovvertono le normali
azioni. Possono viaggiare tramite floppy disc scambiati o su network.
Tecnicamente sono distinti dai "worms" ("vermi"), che sono interi programmi di
per sé, e di solito viaggiano su network. Piuttosto diversi sono i "Cavalli di
Troia", una terza categoria di programmi distruttivi, che di per sé non si
autoreplicano, ma si basano sugli esseri umani per essere duplicati, a causa del
loro contenuto pronografico o altrimenti accattivante. Sia i virus che i worms
sono programmi che in realtà dicono, in linguaggio di computer: "Duplicami."
Entrambi possono fare altre cose in grado di far sentire la loro presenza e
magari soddisfare la vanità recondita dei loro autori. Tali effetti collaterali
possono essere "umoristici" (come il virus che fa pronunciare all’altoparlante
interno del Macintosh le parole: "Non farti prendere dal panico", raggiungendo
inevitabilmente l’effetto opposto); maliziosi (come i numerosi virus IBM che
cancellano l’hard disk dopo un annuncio ridacchiante del disastro imminente
sullo schermo); politici (come i virus alla Telecom spagnola e di Pechino che
protestavano, rispettivamente, contro i costi telefonici o il massacro degli
studenti); o, semplicemente, involontari (il programmatore è incapace di
maneggiare correttamente le richieste di sistema di basso livello necessarie per
scrivere un virus o un worm efficace). Il famoso Worm di Internet, che il 2
novembre 1988 paralizzò gran parte del potere informatico degli Stati Uniti, non
aveva intenti (del tutto) maliziosi, ma divenne incontrollabile e, nel giro di
ventiquattro ore, aveva "otturato" 6.000 memorie di computer, tramite copie di
se stesso che si moltiplicavano esponenzialmente.
I meme adesso sono diffusi in tutto il mondo
alla veloce della luce, e si replicano a un ritmo che fa sembrare immobili al
loro confronto anche i moscerini della frutta e le cellule del lievito. Balzano
in modo promiscuo da veicolo a veicolo. Da medium a medium, e si stanno
rivelando praticamente "inquarantenabili". (Dennett 1990, p.131). I virus non
sono limitati ai media elettronici, come dischi e linee di dati. Lungo la sua
strada da un computer all’altro, un virus può passare attraverso l’inchiostro
per la stampa, i raggi di luce in una lente umana, gli impulsi del nervo ottico
e le contrazioni muscolari delle dita. Una rivista per appassionati di computer,
che aveva stampato il testo di un programma virus nell’interesse dei suoi
lettori, è stata criticata ovunque. In effetti, è tale il fascino dell’idea del
virus, per un certo tipo di mentalità puerile (il genere maschile sarebbe
d’obbligo) che ogni tipo di pubblicazione con informazioni su come progettare
virus informatici è giustamente vista come un atto irresponsabile.
Non ho intenzione di rendere pubblico neanche un
codice di virus. Ma esistono certi trucchi in programmi virus efficaci che sono
così noti, persino scontati, che non provocherà alcun danno menzionarli, come mi
serve fare per sviluppare il mio tema. Tutti quanti discendono dal bisogno dei
virus di sfuggire all’individuazione mentre si sta diffondendo.
Un virus che clona se stesso all’interno di un
computer con troppo elevata prolificità sarà ben presto individuato, poiché i
sintomi dell’intervento diventeranno troppo ovvi perché li si possa ignorare.
Per questo motivo molti programmi virus, prima di infettare un sistema,
controllano di non essere già presenti sul sistema stesso. Detto per inciso, ciò
apre una via difensiva contro questi, analoga all’immunizzazione. All’epoca in
cui ancora non era disponibile un programma specifico anti-virus, io stesso fui
costretto a rispondere a una prima infezione del mio hard disk col solo mezzo di
una "vaccinazione" nuda e cruda. Invece di cancellare il virus che avevo
individuato, mi limitai a disabilitare le sue istruzioni codificate, lasciando
intatta l’"involucro" del virus, con la sua caratteristica "firma" esterna. In
teoria, appartenenti successivi della stessa specie di virus che fossero
arrivati nel mio sistema avrebbero dovuto riconoscere la firma del loro tipo, e
astenersi dal provare a ri-infettare. Non so se questa immunizzazione abbia
davvero funzionato, ma in quei giorni valeva la pena di "sbudellare" un virus e
lasciarne l’involucro, piuttosto che rimuoverlo semplicemente armi e bagagli
inclusi. Oggigiorno è meglio delegare il problema a un programma anti-virus
compilato da professionisti.
Un virus troppo potente verrà rapidamente
individuato e reso innocuo. Un virus che di colpo, catastroficamente, saboti
ogni computer in cui si riconosce, non si riconoscerà in molti computer. Potrà
avere effetti non molto divertenti su un computer –cancellare un’intera tesi di
dottorato o fare qualcosa di ugualmente devastante- ma non si diffonderà a
livello di epidemia.
Certi virus, perciò, sono programmati per avere
un effetto sufficientemente limitato da renderne difficile l’individuazione, ma
che comunque può rivelarsi estremamente dannoso. Ce n’è di un tipo che, invece
di cancellare interi settori di disco, ne attacca solo alcuni, provocando
qualche cambiamento del tutto casuale nelle quantità (di solito finanziarie)
delle righe e delle colonne. Altri virus sfuggono all’individuazione venendo
innescati secondo il calcolo delle probabilità, e cancellano per esempio solo un
hard disk su sedici infettati. E altri virus ancora adoperano il principio della
bomba a tempo. La maggior parte dei computer moderni "sa" la data del giorno, e
i virus vengono innescati per manifestarsi in ogni parte del mondo in un giorno
particolare, come venerdì 13 o il giorno del Pesce d’Aprile. Dal punto di vista
di un parassita, non importa quanto un attacco si riveli catastrofico, purché il
virus abbia ripetute opportunità per diffondersi (secondo un’analogia abbastanza
sgradevole con la teoria dell’invecchiamento postulata da Medawar/Williams: noi
siamo vittime di geni letali e sub-letali che maturano solo dopo che abbiamo
dato loro molto tempo per riprodursi -Williams, 1957)). Come difesa, alcune
compagnie importanti si spingono fino a sistemare un "canarino da miniera" nel
loro parco-computer, e gli spostano il calendario di una settimana in avanti, in
modo che qualunque virus del tipo bomba a tempo si riveli prematuramente, prima
del gran giorno.
Sempre in modo prevedibile, l’epidemia di virus
per computer ha innescato un braccio di ferro. Il software anti-virale sta
avendo un commercio roboante. Tali programmi-antidoto –"Interferon", "Vaccino",
"Gatekeeper" e altri- adottano un arsenale di trucchi differenti. Alcuni sono
scritti pensando a virus specifici, ben noti per caratteristiche e nome. Altri
intercettano qualunque tentativo diinterferire con delicate aree di sistema di
memoria e avvisano l’utente.
Il principio del virus, in teoria, potrebbe
essere usato per scopi non maligni, adiirittura benefici. Thimbleby (1991) ha
coniato l’espressione "liveware" per il suo impiego già sperimentato del
principio di infezione per tenere aggiornate copie multiple di un database. Ogni
volta che un disco contenente il database è infilato in un computer, controlla
se c’è già presente un’altra copia sull’hard disk locale. Se c’è, ogni copia
viene aggiornata alla luce dell’altra. Quindi, con un po’ di fortuna, non
importa quale membro tra un gruppo di colleghi stia immettendo, per fare un
esempio, una nuova citazione bibliografica sul suo hard disk personale.
L’informazione appena entrata infetterà immediatamente gli hard disk dei
colleghi (poiché essi si inseriscono in modo promiscuo i dischi nei reciproci
computer) e si diffonderà in circolo come un’epidemia. Il "liveware" di
Thimbleby's non è del tutto analogo a un virus: non potrebbe diffondersi su
qualunque computer e causare danni. Propaga dati solo a copie già esistenti del
suo stesso database; e uno non può essere infettato dal "liveware" a meno che
non sia lui stesso a decidere di esserlo.
Per inciso Thimbleby, che si è molto interessato
alla minaccia dei virus, precisa che si può ottenere una certa protezione
servendosi di sistemi di computer di cui non si servono altre persone. La
giustificazione consueta per l’acquisto del tipo di computer oggi numericamente
dominante è solo e semplicemente che è numericamente dominante. Praticamente
ogni persona ragionevole concorda sul fatto che, in termini di qualità e
soprattutto di supporto all’utente, il sistema minoritario e rivale è superiore.
Eppure, l’ubiquità e considerata un bene di per sé, sufficiente a superare in
valore la schietta qualità. Comprate lo stesso computer (sebbene inferiore) dei
vostri colleghi, si è soliti sostenere, e potrete beneficiare di scambi di
software e in genere di una più ampia circolazione del software disponibile.
L’ironia è che, con l’avvento della piaga dei virus, il "beneficio" non sarà la
sola cosa che ne ricaverete. Non solo dovremmo pensarci su due volte prima di
accettare un dischetto da un collega, dovremmo anche essere consapevoli che, nel
momento in cui ci uniamo a una vasta comunità di utenti di un certo tipo di
computer, ci stiamo anche unendo a una vasta comunità di virus –addirittura, si
scopre, sproporzionatamente vasta.
Tornando al possibile utilizzo di virus per
scopi positivi, si stanno facendo proposte di impiegare i principi del
"bracconiere che diventa guardaforesta" e del "metti un ladro per prendere un
ladro". Una maniera molto semplice consisterebbe nel prendere qualunque
programma anti-virus esistente e caricarlo, come "avanguardia", in un virus
innocuo che si autoduplichi. Dal punto di vista della "salute pubblica", una
diffusa epidemia di software anti-virale potrebbe rivelarsi benefica, poiché i
computer più vulnerabili nei confronti di virus maligni –quelli i cui
proprietari si comportano in modo promiscuo nello scambio di programmi piratati-
saranno anche quelli più vunerabili all’infezione dell’anti-virus curativo. Un
anti-virus assai penetrante potrebbe –come nel sistema immunitario- "imparare" o
"sviluppare" una crescente capacità di attaccare qualunque virus incontrasse.
Immagino altri utilizzi del principio del virus
da computer che, se non proprio altruistici, potrebbero essere quantomeno tanto
costruttivi da evitare l’accusa di pubblico vandalismo. Una compagnia
informatica potrebbe desiderare di istituire una ricerca di mercato sulle
abitudini dei suoi consumatori, avendo come obiettivo il miglioramento nel
progettare i prodotti futuri. Gli utenti preferiscono scegliere file da un’icona
disegnata o semplicemente dal nome del file stesso? Fino a che punto alcuni
stivano magazzini (le directory) l’uno dentro l’altro? La gente di solito fa
lunghe sessioni di lavoro con un solo programma, per esempio di word processor,
o salta di continuo qua e là, per esempio tra programmi di scrittura e di
disegno? I clienti riescono a puntare il mouse immediatamente sull’obiettivo, o
vi gironzolano intorno dandogli la caccia con dei movimenti perditempo che
potrebbero essere rettificati da un semplice cambio nel design? La compagnia
potrebbe inviare un questionario contenente tutte queste domande, ma i clienti
che rispondessero potrebbero essere un campione influenzato e, in ogni caso,
l’accertamento della loro condotta nell’uso del computer potrebbe rivelarsi
impreciso. Una soluzione migliore consisterebbe in un programma di computer per
le ricerche di mercato. Si chiederebbe ai clienti di caricare tale programma nel
loro sistema, dove se ne starebbe, inoffensivo, a monitorare tranquillamente e a
registrare le pressioni sulla tastiera e i movimenti del mouse. A fine anno si
chiederebbe al cliente di inviare il file disco contenente tutti i riscontri del
programma-ricerca di mercato. Ma, nuovamente, molti non si darebbero il disturbo
di cooperare, e alcuni potrebbero addirittura vedere questo fatto come
un’intrusione nella loro privacy e nel loro spazio su disco.
La soluzione perfetta, dal punto di vista della
compagnia, consisterebbe in un virus. Come ogni altro virus, sarebbe del tipo
auto-duplicante e segreto. Ma non sarebbe dannoso o beffardo come un virus
ordinario. Conterrebbe, insieme al suo lancio di auto-replicazione, una testa di
ponte per la ricerca di mercato. Il virus sarebbe liberato clandestinamente
nella comunità di utenti di computer. Come un virus ordinario, si diffonderebbe
tramite il passaggio di floppy disk ed e-mail all’interno della comunità. Nel
diffondersi da computer a computer, stilerebbe statistiche sul comportamento
dell’utente, monitorate in segreto, a fondo, entro una successione di sistemi. A
un certo punto una copia dei virus di certo troverebbe la sua strada, tramite il
normale traffico epidemico, per tornare in uno dei computer della compagnia. Lì
verrebbe esaaminato e i suoi dati collazionati con i dati di altre copie del
virus che fossero "tornate a casa".
Guardando al futuro, non è troppo fantasioso
immaginare un giorno in cui i virus, sia buoni che cattivi, saranno diventati
così ubiqui che si potrà parlare di una comunità ecologica di virus e programmi
legittimi coesistenti nella "silicosfera". Attualmente si pubblicizza del
software, per dirne una, "Compatibile con il System 7". In futuro, si potranno
pubblicizzare dei prodotti in tal modo: "Compatibile con tutti i virus
registrati nel Censimento Mondiale dei Virus del 1998; immune a tutti i virus
più potenti nell’elenco; trae enorme vantaggio takes dalle agevolazioni offerte
dai seguenti virus benigni..."
Il software per il Word-processing, per esempio,
potrà delegare funzioni particolari, come il conteggio delle parole e la
ricerca, a virus "amici" che indaghino autonomamente lungo un testo.
Guardando ancora più in là nel futuro, potranno
svilupparsi dei sistemi di software totalmente integrati, non per un progetto,
ma per qualcosa di analogo alla crescita di un ambiente ecologico, come una
foresta pluviale dei Tropici. Verrebbero su schiere di virus reciprocamente
compatibili, così come si possono considerare i genomi come gruppi di geni
reciprocamente compatibili (Dawkins, 1982). In effetti, ho persino suggerito che
si dovrebbe guardare ai nostri genomi come a gigantesche colonie di virus
(Dawkins, 1976). I geni cooperano l’un l’altro nei genomi poiché la selezione
naturale ha favorito quei geni che prosperano in presenza di un altro gene che
sembri comune nel pool del gene. Diversi pool di geni possono evolvere verso
diverse combinazioni di geni reciprocamente compatibili. Immagino un momento in
cui, più o meno allo stesso modo, i virus dei computer potranno evolversi verso
la compatibilità con altri virus, per formare comunità o gruppi. Ma, fino ad
allora, può darsi di no! A qualunque livello, trovo tale speculazione più
allarmante che eccitante.
Al momento, i virus dei computer non si evolvono
affatto. Vengono inventati da programmatori umani, e se si evolvono lo fanno
nello stesso, debole modo in cui lo fanno le automobili o gli aeroplani. I
progettisti ideano l’auto dell’anno come una lieve modifica dell’auto dell’anno
scorso e possono quindi, più o meno consciamente, continuare la tendenza degli
ultimi cinque anni –ulteriore appiattimento della griglia del radiatore o che
altro. I programmatori dei virus dei computer sognano trucchi sempre più remoti,
in grado di beffare i programmatori di software anti-virus. Ma i virus dei
computer –che si sappia- non mutano e non si evolvono per selezione davvero
naturale. Potranno farlo in futuro. Sia che si evolvano per selezione naturale,
o che la loro evoluzione venga pilotata da progettisti umani, potrebbe non
esserci molta differenza sulle loro effettive performance. Grazie a entrambe le
tipologie di evoluzione, ci aspettiamo che diventino ingegnosamente compatibili
con altri virus che già prosperano all’interno della comunità dei computer.
I virus del DNA e quelli dei computer si
diffondono per un identico motivo: c’è un ambiente in cui esiste un meccanismo
costruito appositamente per replicarli e diffonderli, e per obbedire alle
istruzioni incorporate dai virus. Questi due ambienti sono, rispettivamente,
l’ambiente della fisiologia cellulare e quello fornito da una vasta comunità di
computer e macchinari che maneggiano dati. Esistono altri ambienti come questi,
altri paradisi di replicazione?
3 La Mente Infetta
Ho già accennato alla credulità
programmata di un bambino, assai utile per imparare il linguaggio e il bagaglio
di conoscenze tradizionali, e così facile da sovvertire da parte di suore, sette
e categorie affini. Più in generale, noi tutti ci scambiamo informazioni
reciprocamente. Non è che infiliamo floppy disk nel cranio di un’altra persona,
ma ci scambiamo frasi, tramite orecchie e occhi. Ci accorgiamo degli stili di
muoversi e vestirsi degli altri, e ne siamo influenzati. Assorbiamo gli stacchetti pubblicitari, e si presume che siamo persuasi da questi, altrimenti i
duri affaristi non spenderebbero così tanti soldi a inquinare l’aria con questa
roba.
Pensate alle due prerogative che un
virus, che ogni sorta di replicatore parassitario richiede a un medium ospitale,
quelle due stesse qualità che rendono così accogliente il meccanismo cellulare
nei confronti del DNA parassitale e i computer verso i virus. Tali prerogative
sono, per prima cosa, una prontezza nel duplicare informazioni in modo assai
accurato, appena con qualche lieve errore che in seguito viene corretto con
precisione; in secondo luogo, una prontezza nell’obbedire alle istruzioni
codificate nell’informazione in tal modo replicata.
Il meccanismo cellulare e i computer
elettronici eccellono in entrambe queste qualità pro-virus. Come si comportano i
cervelli umani? Quanto a fedeltà di riproduzione sono certamente meno perfetti
delle altre cellule o dei computer elettronici. Eppure vanno bene, sono forse
fedeli quanto un virus RNA, per quanto non siano fedeli come il DNA, con tutte
le sue elaborate misure correttive contro la degrazione testuale. È lo stesso
linguaggio a fornire prove dell’alta fedeltà dei cervelli, specie se allo stato
infantile, come duplicatori. Il professor Higgins di G. B. Shaw era in grado,
solo con l’udito, di localizzare un londinese a seconda della strada in cui era
cresciuto. La narrativa non fornisce prove di alcunché, ma chiunque sa che
questa abilità di Higgins, inventata in un’opera di finzione, è solo
un’esagerazione di qualcosa che tutti noi possiamo maneggiare. Ogni americano sa
riconoscere l’accento del Profondo Sud da quello del Mid West, quello del New
England dall’Hillbilly. Ogni newyorkese distingue uno del Bronx da uno di
Brooklyn. Analoghe osservazioni si potrebbero fare per qualunque paese al mondo.
Tale fenomeno sta a significare che i cervelli umani sono capaci di di copiatura
assai accurata (altrimenti l’accento di, per dire, Newcastle, non sarebbe
sufficientemente stabile per poter essere riconosciuto) ma con qualche errore
(altrimenti le pronunce non si evolverebbero, e ogni parlante di un linguaggio
erediterebbe lo stesso identico accento dei suoi antenati più remoti). Il
linguaggio si evolve, poiché possiede sia grande stabilità che impercettibile
mutevolezza, pre-requisiti di ogni sistema in evoluzione.
Il secondo requisito di un ambiente
ospitale per un virus –che obbedisca a un programma di istruzioni in codice- è,
di nuovo, meno applicabile solo per quantità al cervello umano, rispetto alle
cellule o ai computer. A volte obbediamo a ordini che ci diamo reciprocamente,
ma a volte no. Nondimeno, è un fatto significativo che, nel mondo, la
grandissima parte dei bambini segua la religione dei genitori piuttosto che
qualunque altra religione disponibile. Si obbedisce a istruzioni su come
genuflettersi, come chinarsi verso la Mecca, come scuotere la testa ritmicamente
verso il muro, agitarsi come un invasato, parlare "più lingue" –la lista di
gesti motori abritrari e inutili nelle religioni è davvero estesa- e si
obbedisce se non come degli schiavi, quantomeno con un certo ragionevole e alto
tasso di probabilità statistica.
In modo meno roboante, ma di nuovo
assai evidente nei bambini, le "manie in voga" costituiscono un esempio assai
forte di comportamento è debitore più dell’epidemiologia che della scelta
razionale. Gli yo-yo, gli hula hoop e i pogo sticks, con le loro azioni
comportamentali fisse, passano per le scuole, e più sporadicamente saltano da
scuola a scuola, secondo modelli che differiscono da un’epidemia di morbillo per
particolari ben poco rilevanti. Dieci anni fa potevate viaggiare per migliaia di
chilometri lungo tutti gli Stati Uniti senza vedere un cappello da baseball
rigirato al contrario sulla fronte. Oggigiorno, il cappellino da baseball alla
rovescia è ovunque. Non so con precisione quale sia stato il tasso di diffusione
geografica del cappellino alla rovescia, ma l’epidemiologia è sicuramente tra le
discipline più qualificate per studiarlo. Non è qui necessario ricorrere ad
argomentazioni sul "determinismo"; non serve dichiarare che i bambini sono
costretti a imitare le mode dei cappellini dei loro compagni. Ci basti
constatare, come prova evidente, che il loro modo di portare i cappellini da
baseball è influenzato dal modo di portare i cappellini da baseball dei loro
compagni.
Siano pure frivole, le "manie in voga"
forniscono una prova ancor più circostanziale del fatto che la mente umana,
specie quella dei giovani, possiede quelle qualità che abbiamo prescelto come
desiderabili da parte di un parassita informatico qualunque. Quantomeno la mente
è un possibile candidato per un’infezione da parte di qualcosa di simile a un
virus per computer, anche se non è quell’ambiente di sogno per un parassita,
come lo sono un nucleo di una cellula o un computer elettronico.
È intrigante domandarsi che
succederebbe, da dentro, se una mente fosse vittima di un "virus". Potrebbe
trattarsi di un virus progettato appositamente, come un attuale virus dei
computer. O di un parassita inavvertitamente mutato e inconsciamente evoluto. In
entrambi i casi, specie se il parassita evoluto fosse il discendente memico di
una lunga linea di antenati forti, siamo incoraggiati ad aspettarci che il
tipico "virus della mente" sia assai bravo nel suo compito di replicarsi con
successo.
L’evoluzione progressiva di parassiti
mentali più efficaci avrebbe due effetti. Nuovi "mutanti"'' (tanto casuali che
progettati da esseri umani) bravi a diffondersi diventerebbero sempre più
numerosi. E ci sarebbe tutto un riunirsi di idee che fiorirebbero l’una in
presenza dell’altra, idee che si sosterrebbero l’un l’altra proprio come fanno i
geni e come ho immaginato che un giorno potrebbero fare i virus dei computer.
Probabilmente i duplicatori muovebbero insieme di cervello in cervello, in
gruppi reciprocamente compatibili. Tali gruppi andrebbero a costituire un
"pacco", sufficientemente stabile per meritarsi un nome collettivo come
Cattolicesimo Romano o Voodoo. Non ha grande importanza se pratichiamo
un’analogia tra l’intero "pacco" e un singolo virus, od ognuna delle parti
componenti di un singolo virus. L’analogia non è del tutto precisa, proprio come
la distinzione tra un virus di computer e un worm di computer non è qualcosa su
cui poter lavorare. Ciò che importa è che la mente è un ambiente ospitale per
idee o informazioni parassitiche, che si auto-replicano, e che è infettabile in
modo devastante.
Come i virus dei computer, i più
efficaci virus della mente tendono a essere difficili da distinguere da parte
delle loro vittime. Se ne siete vittima, ci sono molte probabiità che non li
riconosciate e che addirittura lo neghiate con vigore. Dando per scontato che un
virus nella vostra mente sia difficile da individuare, che segni di
riconoscimento dovreste cercare? Risponderò immaginando come dovrebbe descrivere
i sintomi tipici di un paziente (arbitrariamente maschio) un testo di medicina.
1. Il paziente tipico si trova spinto
dalla profonda convinzione interiore che qualcosa è vero, o giusto, o virtuoso:
una convinzione che non sembra dovere qualcosa all’evidenza delle prove o alla
ragione ma che, nondimeno, lui sente come totalmente cogente e convincente. Tra
medici ci riferiamo a tale credenza con il termine "fede".
2. I pazienti tipici considerano una
virtù positiva il fatto che la loro fede sia salda e incrollabile, a dispetto
del fatto che non è basata su prove. In realtà, sembra che pensino che meno
prove ci sono, più lodevole sia il loro credere (vedi sotto).
Tale idea paradossale, che la mancanza
di prove sia una virtù positiva quando si ha a che fare con la fede, ha qualcosa
delle qualità di un programma che si auto-alimenta, in quanto auto-referente
(vedi il capitolo "Frasi virali e strutture auto-replicanti" in Hofstadter,
1985). Una volta che si crede a una proposizione, essa automaticamente
squalifica la sua contraria. L’idea che "la mancanza di prove è una virtù"
potrebbe essere un ammirevole colpo a effetto, che si unisce alla fede in sé, in
un cricca di programmi virali che si sostentano reciprocamente.
3. Un altro sintomo collegato, che può
presentato da un ammalato di fede, è la convinzione che "il mistero, di per sé,
è buona cosa. Non è un pregio risolvere i misteri. Anzi, dovremmo godere di
loro, persino festeggiarne l’insolubilità."
Ogni impulso a risolvere misteri
sembrerebbe un serio nemico della diffusione di un virus della mente. Non
dovrebbe perciò sorprendere che l’idea che "i misteri è meglio non risolverli"
sia stata membro favorito di una gang di virus che si sostentano reciprocamente.
Prendiamo il "Mistero della Transustanziazione". È facile e "non misterioso"
credere che in un certo senso simbolico e misterioso il vino eucaristico diventa
il sangue di Cristo. La dottrina cattolico-romana della transustanziazione,
però, proclama ben altro. La "sostanza tutta" del vino viene mutata nel sangue
di Cristo; la parvenza restante del vino è "puramente accidentale", "propria di
nessuna sostanza". (Kenny, 1986, p. 72). Si insegna che transustanziazione, in
parole semplici, significa che il vino si trasforma "letteralmente"" nel sangue
di Cristo. Sia nel suo nebuloso linguaggio aristotelico che nella sua forma
colloquiale più terra terra, il dogma della transustanziazione si può accettare
solo se operiamo grande violenza al normale significato di parole come
"sostanza" e "letteralmente". Ridefinire le parole non è certo un peccato, ma se
usiamo parole come "sostanza tutta" e "letteralmente" in questo caso, che parole
dobbiamo usare quando davvero vogliamo intendere che qualcosa è realmente
accaduto? Come ha osservato Anthony Kenny, a proposito delle sue perplessità da
giovane seminarista, "Per quanto riuscivo a capire, la mia macchina da scrivere
poteva benissimo essere Benjamin Disraeli transustanziato..."
I cattolici-romani, il cui credo
nell’infallibilità dell’autorità li costringe ad accettare che il vino si
trasforma "fisicamente" in sangue, a dispetto di ogni evidenza sensibile,
parlano del "Mistero" della transustanziazione. Chiamarlo mistero mette tutto a
posto, no? O almeno, funziona bene con delle mente preparate da un’infezione
sotterranea. Lo stesso trucco viene praticato con il "Mistero" della Trinità. I
"Misteri" non sono fatti per essere risolti, devono solo ispirare timore. L’idea
che "Il Mistero è una virtù" viene in aiuto del cattolico, che altrimenti
reputerebbe intollerabile l’obbligo a credere agli ovvi nonsense della
transustanziazione e del "tre in uno". E in più, il credere che "Il Mistero è
una virtù" crea un cerchio autoreferente. Come direbbe Hofstadter, è la stessa
misteriosità del credere che spinge il credente a perpetuare il mistero.
Sintomo estremo dell’infezione del
tipo "Il Mistero è una virtù" è il "Certum est quia impossibile est'" di
Tertulliano. ("È certo perché è impossibile"). Che follia. Viene voglia di
citare la Regina Bianca di Lewis Carroll che, in risposta ad Alice che afferma:
"Non si può credere a cose impossibili", controbatte: "Suppongo che tu non ti
sia allenata molto… Quando avevo la tua età lo facevo sempre, mezz’oretta al
giorno. A volte sono riuscita a credere addirittura a sei cose impossibili prima
di pranzo." O il Monaco Elettrico di Douglas Adams, un meccanismo
risparmia-fatica programmato per credere al vostro posto, che era "capace di
credere persino cose che avrebbero faticato a credere a Salt Lake City'" e che
quando viene presentato al lettore crede, contro ogni evidenza, che tutto al
mondo sia di un’uniforme tinta rosa. Ma Regine Bianche e Monaci Elettrici
diventano meno divertenti, se si pensa che questi "virtuosi del credere" sono
indistinguibili dai riveriti teologi della vita reale. "Bisogna credervi con
ogni mezzo, poiché è assurdo" (di nuovo Tertulliano). Sir Thomas Browne (1635)
cita Tertulliano con approvazione, e si spinge ancora più in là: "Parmi che non
ci siano abbastanza cose impossibili nella religione, per una fede attiva." E:
"Desidero esercitare la mia fede fino alle vette più ardue; poiché credere agli
oggetti comuni e visibili non è fede, ma persuasione."
Ho la sensazione che qui sia in ballo
qualcosa di più interessante che la semplice follia o il nonsense surrealista,
qualcosa affine all’ammirazione che proviamo nel guardare un giocliere con dieci
palline in piedi su una corda tesa. Come se il fedele acquistasse maggiore
prestigio nel credere a cose più impossibili di quelle in cui credono i suoi
rivali credenti. Questa gente sta forse provando –esercitando- i propri muscoli
da credente, si sta allenando per credere cose impossibili in modo da scavalcare
le cose semplicemente incredibili in cui quotidianamente è tenuta a credere?.
Mentre stavo scrivendo queste righe,
per caso "The Guardian" (29 luglio 1991) riportava uno splendido esempio. Era in
un’intervista con un rabbino, che si sottoponeva al compito bizzarro di
controllare la purità kosher dei prodotti alimentari, fino alle più remote
origini dei loro ingredienti più insignificanti. In quel momento si stava
tormentando se andare fino in Cina per sottoporre a scrutinio il mentolo che va
nelle caramelline contro la tosse. "Ha mai provato a controllare il mentolo
cinese? È estremamente difficile, specie dopo che la prima lettera che mandammo
ottenne una risposta in puro anglo-cinese, "Il prodotto non contiene kosher"...
Solo di recente la Cina ha iniziato ad aprire le frontiere alle investigazioni
kosher. Il mentolo dovrebbe essere OK, ma non si può mai essere sicuri al cento
per cento se non si va sul posto." Questi "investigatori kosher" hanno una
hot-line telefonica in cui vengono registrati allarmi rossi di sospetto in tempo
reale nei confronti di sbarrette di cioccolato e olio di fegato di merluzzo. Il
rabbino si lamentava che l’atteggiamento ecologista contro gusti e coloranti
artificiali "rende dura la vita nel campo kosher, poiché bisogna star dietro a
tutte queste cose." Quando l’intervistatore gli chiedeva perché si dannasse
tanto con tale pratica ovviamente insensata, lui chiariva con decisione che
"l’utilità è proprio che non c’è utilità":
Che quasi tutte le leggi Kashrut siano
ordini divini senza motivo, questo è il punto, al cento per cento. È facile non
ammazzare nessuno. Molto facile. È un po’ più difficile non rubare, perché uno
di tanto in tanto è tentato. Cosicché non è gran prova del fatto che io creda in
Dio o che stia rispettando la Sua volontà. Ma se Egli mi dice di non farmi una
tazza di caffè con latte e frutta secca all’ora del lunch, questa è una prova.
L’unica ragione per cui lo faccio è perché così mi è stato detto. È piuttosto
difficile.
Helena Cronin mi ha suggerito che
potrebbe esserci un’analogia, qui, con la teoria dell’handicap nella selezione
sessuale e dell’evoluzione dei segnali di Zahavi (Zahavi, 1975). Da tempo fuori
moda, persino messa in ridicolo (Dawkins, 1976), la teoria di Zahavi è stata di
recente riabilitata in modo intelligente (Grafen, 1990 a, b) èd è adesso presa
seriamente dai biologi evoluzionisti. (Dawkins, 1989). Zahavi pensa per esempio
che i pavoni abbiano sviluppato le loro ruote assurdamente pesanti con i loro
colori vistosi ed esilaranti (per i predatori), proprio perché sono pesanti e
pericolose, e perciò fanno impressione sulle femmine. È come se il pavone
dicesse: "Guarda quanto devo essere in forma e robusto, visto che mi posso
permettere di portare in giro questa coda assurda."
Per evitare equivoci con il linguaggio
soggettivo in cui Zahavi ama fare le sue afermazioni, andrebbe aggiunto che qui
sarà data per scontata la consuetudine del biologo di personificare le azioni
inconsce della selezione naturale. Grafen ha tradotto tale argomentazione in un
ortodosso modello matematico darwiniano, e funziona. Qui non c’è nessuna ipotesi
sull’intenzionalità e sulla consapevolezza dei pavoni maschi e femmina. Potete
ritenerli atteggiamenti casuali o intenzionali, come vi garba (Dennett, 1983,
1984). E in più, la teoria di Zahavi è sufficientemente generale per non
dipendere da un puntello darwiniano. Un fiore che fa la pubblicità del suo
nettare a un’ape scettica potrebbe trarre beneficio dal principio di Zahavi. Ma
anche un venditore umano, che cerchi di impressionare un cliente.
La premessa dell’idea di Zahavi è che
la selezione naturale incoraggi lo scetticismo tra le femmine (o, in genere, tra
chi riceve il messaggio promozionale). L’unico modo che ha un maschio (o un
pubblicitario) per autenticare la sua esibizione di forza (di qualità, o che
altro) è dimostrare che è sincero sottoponendosi un handicap dal costo davvero
alto -un handicap che solo un maschio genuinamente forte (di alta qualità, ecc…)
è in grado di sopportare. Lo si potrebbe chiamare il principio
dell’autenticazione ad alto costo. Ed eccoci al punto. È possibile che alcune
dottrine religiose siano favorite non a dispetto del fatto che siano ridicole,
ma proprio perché lo sono? Qualunque sempliciotto in materia di religione
potrebbe credere che il pane rappresenta simbolicamente il corpo di Cristo, ma
ma ci vuole un vero cattolico purosangue per credere in qualcosa di così folle
come la transustanziazione. Si crede di poter credere in ogni cosa e (teniamo
presente la storia di Tommaso l’incredulo) questa gente è allenata per vedere
ciò come un valore positivo.
Torniamo alla nostra lista di sintomi
che si presume viva una persona colpita dal virus mentale della fede, con la
comitiva di accompagnamento delle sue infezioni secondarie.
4. Il malato può trovarsi ad agire in
modo intollerante nei confronti dei vettori delle fedi rivali, in casi estremi
fino a ucciderli o a invocare la loro morte. Può avere disposizione ugualmente
violenta verso gli apostati (coloro che un tempo possedevano la fede ma vi hanno
abdicato) o verso gli eretici (coloro che propongono una diversa versione della
fede –spesso, da notare, appena appena diversa). Può anche mostrarsi ostile nei
confronti di modi di pensiero che sono nemici potenziali della sua fede, come il
metodo di ragionamento scientifico, che potrebbe essere visto come un pezzo di
software anti-virale.
L’ingiunzione di uccidere il celebre
Salman Rushdie è solo l’ultimo di una lunga serie di tristissimi esempi. Lo
stesso giorno in cui stavo scrivendo queste cose, il traduttore giapponese de "I
versetti satanici". è stato trovato assassinato, una settimana dopo
un’aggressione quasi riuscita contro il traduttore italiano dello stesso libro.
Perdipiù, il sintomo apparente opposto di "simpatia" per l’"offesa" ai
Mussulmani, espresso a parole dall’arcivescovo di Canterbury e da altri leader
cristiani (che inclina, nel caso del Vaticano, verso una esibita complicità
criminosa) è, naturalmente, una manifestazione del sintomo che abbiamo discusso
in precedenza: l’illusione che la fede, per quanto nociva possa risultare, va
rispettata semplicemente perché è una fede.
L’assassinio è un mezzo estremo,
naturalmente. Ma esiste un sintomo ancora più estremo, ed è il suicidio durante
il servizio militante per la fede. Come una mosca guerriera programmata per
sacrificare la sua vita per le copie in linea germinale dei geni che hanno messo
a punto il programma, si insegna a un giovane arabo o giapponese (??!) che
morire in una guerra santa è il modo più rapido per raggiungere il paradiso. Che
i leader che lo sfruttano credano davvero in ciò non diminuisce affatto il
brutale potere che il "virus missione suicida" esercita nell’interesse della
fede. Naturalmente il suicidio, come l’assassinio, è una benedizione a metà: i
potenziali convertiti potrebbero essere tenuti lontano, o potrebbero disprezzare
una fede che percepita come così insicura da aver bisogno di tali tattiche.
Ancora più ovviamente, se troppi
individui si sacrificassero, la scorta dei credenti potrebbe abbassarsi. Ciò è
vero a proposito di un noto esempio di un suicidio ispirato da una fede, anche
se in questo caso non si è trattato di una morte da "kamikaze" in battaglia. La
setta del Peoples' Temple si estinse quando il suo leader, il reverendo Jim
Jones, portò la massa dei suoi seguaci dagli Stati Uniti nella Terra Promessa di
"Jonestown", nella giungla della Guyana, ove persuase più di novecento di loro,
per primi i bambini, a bere cianuro. Sulla macabra faccenda investigò a lungo
una squadra di giornalisti del "San Francisco Chronicle" (Kilduff and Javers,
1978).
Jones, "il Padre" aveva raccolto il
suo gregge e aveva detto loro che era tempo di partire per il Cielo.
"Ci rincontreremo", promise, "in un
altro luogo."
Le parole iniziarono a uscire dagli
altoparlanti del campo.
"C’è grande dignità nella morte.
Morire è una grande dimostrazione da parte di tutti."
Detto per inciso, non sfugge alla
mente allenata del sociobiologo attento il fatto che Jones, all’interno della
sua setta, nei giorni precedenti "si autoproclamò l’unica persona a cui era
permesso fare sesso" (si presume che fosse permesso ance alle sue partners).
"Una segretaria gli programmava gli incontri. Costei chiamava le ragazze e
diceva: "Il Padre detesta fare ciò ma ha questo bisogno insopprimibile, e
potresti…?" Le sue vittime non erano soltanto femmine. Un seguace diciassettenne
dell’epoca in cui la comunità di Jones si trovava ancora a San Francisco,
raccontò in che modo fu portato in un albergo per squallidi fine settimana,
albergo in cui Jones fruiva della riduzione per ministri di culto per "il
reverendo Jones e suo figlio." Lo stesso ragazzo raccontò: "Ero davvero in
soggezione nei suuoi confronti. Era più di un padre. Per lui avrei ucciso i miei
genitori." Ciò che è notevole riguardo il reverendo Jim Jones non è tanto il suo
comportamento egoista, quanto la creduloneria quasi sovrumana dei suoi seguaci.
Data una dabbenaggine così prodigiosa, c’è qualcuno che dubiti che la mente
umana è adattissima a infezioni maligne?
Ammettiamolo, il reverendo Jones
plagiò solo qualche migliaio di persone. Ma questo è solo un caso estremo, la
punta dell’iceberg. La medesima brama di venire plagiati da leader religiosi è
diffusa in tutto il mondo. Molti di noi avrebbero scommesso che nessuno se ne
sarebbe potuto andare in televisione a dire, in poche parole: " Mandatemi i
vostri soldi, così posso persuadere altri babbei a mandarmi i suoi." Ma oggi, in
ogni conurbazione maggiore degli Stati Uniti, potete trovare almeno un canale
televisivo evangelista dedicato interamente a tale trasparente capzione di
fiducia. E se ne vanno via con sacchi di soldi. Messi di fronte a una gonzaggine
su scala tanto terrificante, non è difficile provare una riluttante simpatia nei
confronti dei plagiari dai bei completi luccicanti. Fino a che non si capisce
che non tutti i babbei sono ricchi, e che spesso gli evangelisti ingrassano
sugli oboli delle vedove. Ne ho persino sentito uno invocare esplicitamente il
principio che ora chiamo "Il principio di Zahavi dell’autenticazione ad alto
costo". Dio apprezza davvero una donazione, diceva con sincerità colma di
enfasi, solo quando la donazione è così consistente da far male. Dopodiché
arrivavano dei poveri anziani su sedie a rotelle, a testimoniare come si
sentissero più felici da quando avevano mollato tutti i loro pochi averi al
reverendo, chiunque egli fosse.
5. Il paziente potrebbe accorgersi che
le sue convinzioni particolari, mentre non hanno nulla a che fare con l’evidenza
sensibile, sembrano dovere tanto all’epidemiologia. Perché, potrebbe domandarsi,
ho questo insieme di convinzioni piuttosto di quello? È perché ho passato in
rassegna ogni fede del mondo e ho scelto quella i cui proclami mi sembravano più
convincenti? È quasi certo di no. Se possiedi una fede, è pressoché
statisticamente preponderante la possibilità che sia la stessa dei tuoi genitori
e dei tuoi nonni. Non c’è dubbio che le sublimi cattedrali, la musica
emozionante, le storie commoventi e le parabole aiutino un bel po’. Ma la
variabile senza dubbio più importante che determina il tuo credo religioso è la
casualità della nascita. Le convinzioni in cui credi con tanta enfasi sarebbero
state un insieme di convinzioni del tutto diverse e alquanto in contraddizione
con le attuali, se solo ti fosse capitato di nascere in un posto diverso.
Epidemiologia, non evidenza sensibile.
6. Se il paziente rappresenta una delle rare
eccezioni che seguono una religione diversa da quella dei genitori, la
spiegazione può nuovamente essere di natura epidemiologica. A dir la verità è
possibile che abbia passato in rassegna spassionatamente le fedi del mondo e
abbia scelto quella più convincente. Ma è statisticamente più probabile che sia
stato esposto a un agente infettivo particolarmente potente –un John Wesley, un
Jim Jones o un San Paolo. Stiamo parlando di trasmissione orizzontale, come per
il morbillo. In precedenza l’epidemiologia riguardava la trasmissione verticale,
come nel Morbo di Huntington.
7. Le sensazioni interne del paziente possono
sorprendentemente ricordare quelle più comunemente associate all’amore carnale.
Si tratta di una forza mentale estremamente potente, e non sorprende che alcuni
virus si siano evoluti per sfruttarla. La famosa visione orgasmica di Santa
Teresa d’Avila è troppo nota per essere di nuovo citata. Più seriamente, e su un
piano meno crudamente sensuale, il filosofo Anthony Kenny offre una commovente
testimonianza del puro piacere che attende coloro che riescono a credere nel
mistero della transustanziazione. Dopo aver descritto la sua ordinazione da
prete della Chiesa cattolico-romana, che gli conferisce la facoltà di dire la
Messa, va avanti a descrivere ciò che ricorda nitidamente:
L’esaltazione dei primi mesi in cui ebbi la
facoltà di dire Messa. Di solito mi ero sempre alzato dal letto lentamente e
svogliatamente, allora balzavo presto dal letto, del tutto sveglio e pieno di
eccitazione al pensiero dell’atto fondamentale che era mio privilegio mettere in
pratica. Di rado dicevo la Messa per la Comunità: più spesso celebravo da solo
su un altare laterale, con un membro giovane del College che mi serviva da
accolito e congregazione al tempo stesso. Ma non faceva differenza per solennità
del sacrificio o validità della consacrazione.
Era toccare il corpo di Cristo, l’intimità del
prete con Gesù, che mi affascinavano maggiormente. Fissavo l’Ostia dopo le
parole di consacrazione, a occhi semichiusi come un innamorato che guardasse gli
occhi dell’amata… Quei giorni da prete rimangono nella mia memoria come giorni
di appagamento e tremula felicità; come qulcosa di prezioso, eppure troppo
fragile per durare, come una storia di amore romantico troncata dalla realtà di
un matrimonio male assortito (Kenny, 1986, pp. 101-2).
È commovente e credibile che il dottor Kenny
dica che si sentisse come se fosse stato innamorato dell’ostia consacrata. Che
virus dallo straordinario successo! Nella stessa pagina, per inciso, Kenny ci
mostra anche che il virus è trasmesso per contagio –se non letteralmente,
quantomeno in un certo senso- dal palmo della mano del vescovo che infetta, in
cima al capo del nuovo prete:
Se la dottrina cattolica ha ragione, ogni prete
regolarmente ordinato mutua i suoi ordini in una linea ininterrotta di mani che
si posano, tramite il vescovo che lo ordina, fino a risalire a uno dei dodici
apostoli… devono esserci catene lunghi secoli, registrate, di imposizioni di
mani. Mi sorprende che i preti non sembrino mai darsi la pena di rintracciare la
loro stirpe spirituale in tal senso, scoprendo chi ha ordinato il loro vescovo,
e chi ha lo ordinato a sua volta, e così via fino a Giulio II o Celestino V o
Ildebrando, o addirittura a Gregorio Magno (Kenny, 1986, p. 101).
In effetti sorprende anche me.
4 La scienza è un Virus
No. Non lo è, a meno che ogni programma di
computer si possa considerare un virus. Programmi buoni e utili si diffondono
perché la gente li valuta, li raccomanda e li passa in giro. I virus dei
computer si diffondono solo perché incorporano un’istruzione codificata:
"Diffondimi." Le idee scientifiche, come ogni meme, sono soggette a una sorta di
selezione naturale, e ciò potrebbe sembrare, in apparenza, analogo alla sorte
dei virus. Ma le forze selettive che vagliano le idee scientifiche sono
tutt’altro che arbitrarie e capricciose. Si tratta di regole esigenti, ben
temperate, che non proteggono una condotta inutile ed egoista. Esse proteggono
le prerogative inserite nei testi di metodologia standard: testabilità, supporto
delle prove, precisione, quantificabilità, consistenza, intersoggettività,
ripetibilità, universalità, interesse per il progresso, indipendenza di ambiente
culturale e così via. La fede si diffonde nonostante una mancanza totale di
ognuna di queste prerogative.
Potrete riscontrare elementi di epidemiologia
nella diffusione di idee scientifiche, ma si tratterà in gran parte di
epidemiologia descrittiva. La diffusione veloce di una buona idea all’interno
della comunità scientifica potrà anche ricordare la descrizione di un’epidemia
di morbillo. Ma se si passa a esaminare le ragioni sottostanti, si scopre che
sono buone, e soddisfano gli impegnativi standard del metodo scientifico. Nella
storia della diffusione della fede si troverà ben poco al di fuori
dell’epidemiologia, epidemiologia causale. Il motivo per cui una persona A crede
una cosa e B ne crede un’altra consiste solo e semplicemente nel fatto che A è
nato in un continente e B in un altro. Testabilità, supporto delle prove e tutto
il resto non sono considerati neanche remotamente. Per il credo scientifico,
l’epidemiologia viene solo dopo, e descrive la storia della sua accettazione.
Per il credo religioso, l’epidemiologia è la causa principale.
5 Epilogo
Per fortuna, i virus non vincono sempre. Molti
bambini escono intonsi dal peggio che le suore e i mullah gli scaraventano
addosso. La storia personale di Anthony Kenny ha un lieto fine. Rinunciò agli
ordini, poiché non riusciva più a tollerare le ovvie contraddizioni insite nel
credo cattolico, ed ora è uno studioso alquanto stimato. Ma non si può fare a
meno di rimarcare che deve essersi trattato di un’infezione davvero potente, se
un uomo della sua saggezza e della sua intelligenza –direttore della British
Academy, nientemeno- ha impiegato trent’anni di lotta per uscirne.
Sono un allarmista fuori luogo, se ho paura per
l’anima della mia innocente bimba di sei anni?
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Text taken from Dennett and
His Critics: Demystifying Mind, ed. Bo Dalhbom (Cambridge, Mass.:
Blackwell, 1993).
Typed 9 March 1995 | Last changed
11 February 1997 (grazie a Mitch Porter, Steve Bliss e Richard Smith
suggerimenti tipografici)
tit orig:
Viruses of the mind, tr.it.Andrea Marti
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