un racconto di Nancy Kress
Come Aaron mi seguì
nel giardino mi accorsi che era arrabbiato. Increspava la bocca, quella dolce
esagerazione delle labbra che non era cambiata da quando aveva due anni e che
appariva un po' sciocca nell'uomo di mezza età che era diventato. Ma non disse
nulla, un segno, di per se, di problemi. Oh, lo conoscevo da cima a fondo, così
come conoscevo suo padre, come suo padre aveva conosciuto me.
Aaron chiuse la porta
dietro di noi e si diresse verso le sedie da giardino, costeggiando il piccolo
tabernacolo come se non ci fosse. Si mise con precauzione su una sedia.
"Sta attento," dissi
quasi casualmente. "Di nuovo la schiena?"
Scacciò la frase con
un gesto, fin da piccolo aveva sempre odiato che gli si richiamasse l'attenzione
su qualche problema fisico. Un ginocchio sbucciato, un torcicollo, un polso
rotto. Me lo ricordavo. Ricordavo tutto.
"Caffè? Un macchiato?"
"Caffè. Vieni più
vicina, non mi va di urlare. Non hai acceso il campo uditivo, vero?"
Non l'avevo fatto. Gli
versai il caffè dal bar del giardino e feci galleggiare la mia sedia fino ad
arrivare a stenderglielo. Dalla porta accanto Todd uscì da casa sua, in
pantaloni corti e con una paletta. Salutò con allegria.
"So che non vorresti
sentirlo," iniziò Aaron (non era mai stato un tipo conciso, e non amava i
sotterfugi), "ma te lo devo dire ancora una volta. Ascolta il dottor Lorsky per
l'operazione."
"Zucchero?"
"Nero. Mamma..."
"Sta tranquillo,"
dissi, e apparve abbastanza colpito, ma alla sorpresa non fece seguito un
cipiglio. aron, che aveva sempre reagito ad un ordine diretto come ad
un'aggressione. Mi misi seduta più dritta e mi allungai verso di lui. Nessun
cipiglio.
Feci una sorsata lunga
e deliberata di un caffè troppo caldo per le lunghe sorsate. "C'è qualche
ragione per cui non vuoi dar ascolto al dottor Lorsky? Una ragione vera e
razionale?" Non aveva guardato al tabernacolo.
"La ragione la sai,"
dissi. Una decina di metri più in là, nella sua parte di giardino, Todd iniziò a
pulire dalle erbacce le sue aiuole, sradicando quelle più resistenti con la
paletta e carpendo le altre a mano. Non aveva mai usato una zappa a motore. I
fiori, bocche di leone e achillee e azalee e calendole, si affollavano nella
breve esplosione calda dell'estate.
Aaron agitò le dita
verso il tabernacolo che ancora non voleva vedere. "Quella non è una ragione!"
Naturalmente, aveva
ragione, il tabernacolo era l'effetto, non la causa. Sorrisi alla sua
perspicacia, incapace a reprimere il rossore imbarazzante e sciocco di un
orgoglio materno fuori luogo di trent'anni. Ma Aaron prese il sorriso per
qualcosa d'altro: acquiescenza, forse, o ammorbidimento. Posò la tazza sull'erba
e si sporse in avanti. In modo serio, era stato sempre un bimbo serio, senza mai
sorridere davanti a scherzi che non comprendeva, mettendo via i giocattoli
sempre nello stesso posto ogni sera, presentando le sue richieste da adolescente
in liste accuratamente numerate, dando lezione agli altri ragazzi sulla loro
brutalità fanciullesca di routine.
Un pedante, a dire il
vero.
"Mamma, ascoltami. Ti
chiedo di riconsiderare la cosa. Nient'altro. Per tre ragioni. Primo, perché sta
diventando pericoloso per te vivere qua tutta da sola. Nonostante la
sorveglianza elettronica. Che succederebbe se venissi derubata?"
"Derubata?" feci in
modo secco. Aaron non afferrò, d'altra parte non m'aspettavo che lo facesse.
Sapeva perché avevo preso questa casa, perché stavo qui. Dissi con gentilezza,
"Ti si fredda il caffè." Mi ignorò, incalzando testardamente, le mani strette
sui braccioli. Sul dorso della mano sinistra c'erano due macchie rosso bruno.
Quand'era successo?
"Secondo,
quest'affare dell'adorazione degli antenati o quant'altro si suppone che sia.
Questo tabernacolo. Non hai mai creduto prima d'ora in tutte queste sciocchezze.
Mi hai allevato a pensare razionalmente, senza superstizioni di sorta, e te ne
stai qui a piantare fiori agli avi morti fino all'ennesima generazione e
meditando su di loro come se fossi una collegata adolescente qualsiasi dal
cervello spaccato."
"Avevamo l'abitudine
di meditare molto da ragazzi, prima che venissero inventati i collegamenti,"
dissi per farlo arrabbiare. Mi preoccupava la sua intensità. "Ma, Aaron, amore,
qui faccio ben altro."
"Cos'è che fai?"
disse e, immediatamente, capii che s'era pentito. Il tabernacolo brillava lucido
in pieno sole. Era un trittico di lastre nere alto sessanta centimetri. Col
caldo del tardo pomeriggio il neo-nitonolo nero s'era ammorbidito fino a perdere
forma, ma con la notte i nomi sarebbero tornati di nuovo ad avere la chiarezza
dell'incisione profonda. Centinaia di piccoli nomi, scolpiti molto stretti con
una scrittura meticolosa, collegati con le linee di generazione. Alla base del
trittico sbocciavano fiori bassi come violette o non ti scordar di me e
rosmarino.
"-C'è del rosmarino, è
per il ricordo,-" dissi, ma Aaron, essendo Aaron, non riconobbe il verso di
Ophelia. Non era mai stato un gran lettore, il mio Aaron. Byte, non libri. Oh,
io mi ricordavo.
Nell'altro giardino la
paletta di Todd fece un rumore sordo nel colpire una pietra interrata.
"Non è igienico,"
Disse Aaron. "Tabernacoli. Venerazione degli antenati! E in terzo luogo superi
l'età per l'operazione. Ho perlato ieri col dottor Lorsky..."
"Hai parlato col mio
dottore senza il mio permesso..."
"... e ha detto che i
tuoi lobi temporali ancora scannano bene ma non sa quanto a lungo potrà ancora
essere vero. C'è quel punto d'otturazione quando il corpo non la regge più. E
allora la cancellazione cerebrale non ti farebbe più alcun bene. Sarebbe troppo
tardi. Mamma.. lo sai."
Lo sapevo. Il semplice
peso della memoria raggiungeva qualche massa critica. Tutti quei ricordi: la
tinta blu di una gonna indossata cinquant'anni fa, l'inclinare della testa di
qualcuno morto da tanto tempo, l'odore forte di un minestrone della nonna che si
mescola col profumo polveroso di un appartamento demolito da più di vent'anni. E
ogni ricordo che si ricollega ad altri, un flusso, fintantoché la nonna era là
prima di te, in tutto. Il peso e il volume di tutte quelle sensazioni minute coi
giorni, gli anni e i decenni fanno scattare cambiamenti chimici nel cervello che
a loro volta fanno scattare cambiamenti cellulari, finché il corpo non regge più
e si accelera il crollo. Il punto d'otturazione. Ci uccidono i ricordi.
Aaron cercò a tentoni
la tazzina, accanto alla sdraia sull'erba. Le zampe di gallina agli angoli degli
occhi erano ancora all'inizio, come linee tracciate sulla sabbia soffice. Scosse
la testa e mormorò. "E' che... E' che non voglio che tu muoia, Mamma."
Girai lo sguardo. In
qualche modo è sempre una sorpresa scoprire che un figlio adulto ti ama ancora.
Nella porta accanto
Todd si sollevò da un'aiuola e si diresse verso la successiva. Si sfilò la
maglietta dalla testa e la gettò a terra. Il sudore luccicava sui muscoli della
schiena ancora sodi e rigidi nel suo corpo da trentacinquenne. La maglietta
creava una macchia scura sull'erba luminosa.
Un'ape si sollevò
ronzando dai fiori attorno al trittico nero e si mise a fare dei giri attorno al
mio orecchio. Contenta per la distrazione, mi misi a scacciarla con la mano.
"Aaron... non posso.
Proprio non posso. Essere cancellata."
"Anche se questo ti
facesse morire? Che scopo c'è?"
Rimasi in silenzio.
Avevamo già discusso, ogni cosa, tutto il maledetto argomento. Ma Aaron non era
mai apparso a quel modo. E non aveva mai supplicato.
"Per favore, mamma.
Per favore. Già inizi a fare confusione. L'altra settimana pensavi che quella
donna nel parco fosse la tua sorella morta. Lo so, stai per dire che è stato
solo un secondo, ma inizia così. Solo per un secondo, poi di più e di più e poi
è troppo tardi per la cancellazione. Tu dici che non saresti più 'tu' con la
cancellazione... ma se se ne va la memoria e la segue il corpo, resti forse 'te
stessa'? Debole e senile? Sei forse ancora 'te stessa' quando sei morta?"
"Il punto non è
questo," iniziai, ma deve aver visto qualcosa sul mio viso che lasciava pensare
ad un ammorbidimento, a un cedimento. Si allungò a prendermi la mano. Le sue
dita erano asciutte e calde.
"E' il punto!
La morte è il punto. Il tuo corpo non può essere più giovane, ma non deve
diventare più vecchio. Tu non devi. E hai la forza fisica, ancora, hai i
soldi... Cristo, non è come se tu dovessi diventare un vegetale. Ricorderai
comunque il linguaggio, le routine... e ti farai ricordi nuovi, ricomincerai da
capo. Una vita nuova. Vita, non morte!"
Su questo non dissi
niente. Aaron poteva vedere gli anni della mia vita che si allungavano dietro di
me, anni che voleva che tagliassi con la stessa noncuranza con cui si pareggia
un'unghia. Non poteva vedere l'altra perdita più grande.
"Ti sbagli," dissi,
nel modo più gentile possibile e tolsi le dita dalle sue. "Non rifiuto la
cancellazione perché desidero la morte. La rifiuto perché di me è già morto
troppo."
Mi guardò senza
capire. L'ape che avevo scacciato gli ronzava attorno all'orecchio sinistro. Gli
vidi gli occhi che scattavano verso di essa e poi di nuovo su di me, rifiutando
di essere distratti. Pensiero lineare, sempre: si sviluppava forse con tutti
quei computer? Occhi così blu, un uomo ancora così attraente.
Nella porta accanto
Todd iniziò a fischiare. Aaron s'irrigidì e si girò a metà per guardarsi per la
prima volta alle spalle, non aveva realizzato che Todd fosse là. Si voltò di
nuovo verso me. Gli occhi ombrati e abbassati e in quella piccola scivolata
laterale (tutt'altro che lineare) capii. Tutto d'un tratto capii.
Se ne accorse.
"Mamma,... mamma..."
"Stai per fare la
cancellazione."
Sollevò la tazzina
fino alla bocca e bevve: un gesto di copertura automatico, il caffè doveva
essere gelato. Repulsivo. Il caffè gelato è repulsivo.
Incrociai le braccia e
mi sporsi in avanti.
Disse con tono
tranquillo, "La schiena si fa sempre peggio. Mi sono tornate le emicranie, una o
due volte alla settimana. Lorsky dice che sono un vecchio quarantaduenne, sai
quanta differenza ci sia tra le persone. Io non sono il tipo dalla vita facile
che dimentica subito. Prendo le cose con forza, non dimentico, e non voglio
morire."
Non dissi nulla.
"Mamma?"
Non dissi nulla.
"Capiscimi... per
favore." Era uscito tutto in un sospiro. Non dissi nulla. Aron posò la tazzina
sul tavolo e si sollevò dalla sedia, poggiandosi pesantemente sulle braccia e
inarcando la schiena. Il movimento attrasse l'attenzione di Todd. Vidi, oltre la
mole del corpo di Aaron, il momento in cui Todd decise di avvicinarsi per essere
un buon vicino.
"Salve, Signora
Kinnian. Aaron.!"
Vidi il viso di Aaron
che si chiudeva. Si volse con lentezza.
Todd disse, "Fa caldo,
eh? Sono stato via una settimana e le erbacce m'hanno assalito ogni cosa."
"In barca," disse
Aaron con attenzione.
"Sì, in barca." Fece
Todd, un po' sorpreso. Si asciugò il sudore dagli occhi. "Tu navighi?"
"Sì, una volta. Da
bambino. Mi portava mio padre."
"Avresti dovuto
continuare. Grande sport. Signora Kinnian, posso pulirle quei fiori?"
Indicò il trittico
nero. Risposi, "No, grazie, Todd. Domattina dovrebbe arrivare il giardiniere."
"Be', se lei... va
bene. Stia bene."
Ci sorrise: un uomo
ben fatto e dagli occhi blu, nel fiore degli anni e florido per salute ed
esercizio, il viso aperto e chiaro come quello di un bambino. Accanto a lui,
Aaron appariva paffuto, rigido e fuori forma. La pelle sul retro del collo di
Aaron formava dei rilievi che si spostavano sopra il colletto.
"Stai attento," dissi
a Todd. Tornò alle sue semine. Aaron si voltò verso di me. Gli vidi gli occhi.
"Mi spiace, Mamma.
Mi... spiace. Ma faccio la cancellazione. Sto per farla."
"A me."
"Per me."
Dopo di ciò non c'era
nient'altro da dire. Guardai Aaron passare accanto al tabernacolo fiorito,
aprire la porta di casa ed entrare nell'interno gelato. Ci fu un breve borbottio
del condizionatore, spento nel momento stesso in cui si chiudeva la porta. Si
sentì una seconda porta sbattere; anche Todd era entrato in casa.
Mi resi conto che non
avevo chiesto ad Aaron quand'era che il dottor Lorsky lo avrebbe cancellato.
Avrebbe potuto non dirmelo. Si era già spinto già oltre di quanto avrebbe voluto
lasciarsi andare, sbilanciato dall'emozione e dall'immaginazione, entrambe le
cose indesiderate. Non era mai stato un bambino pieno d'immaginazione, solo un
bambino pratico. Che veniva in giardino coi compiti di matematica, preoccupato
dalle frazioni e senza il minimo interesse per i fiori che sbocciavano e
morivano attorno a lui. Io ricordavo.
Ma lui non lo
avrebbe fatto.
Todd tornò fuori
portando una bibita fredda e si rimise a seminare. Lo osservai per un po'. Lo
osservai per un'ora o due. Lo osservai dopo che se n'era andato e la caligine
aveva iniziato a coprire il giardino. Poi mi sollevai dalla sedia, mi doleva
tutto, ero stata seduta troppo a lungo, e raccolsi qualche bocca di leone.
Viola, rese più scure dal buio. Le posai davanti al trittico nero.
Quando io e Todd
eravamo sposati avevo portato delle rose: bianche con dei sottotoni rosa sulla
punta dei petali, rosa scuro al centro. Non avevo più visto quelle rose da anni,
forse il ceppo era andato perduto.
La scrittura sul
tabernacolo era venuta fuori chiara e profonda. La toccai con un dito, seguendo
i nomi. Poi tornai a casa a guardare la TV. Una clinica per la cancellazione del
cervello era stata bombardata. Attivisti anziani si affollavano davanti alla
telecamera, strillando e mostrando pugni nodosi. Venivano condotti via dalla
polizia, uomini e donne forti e giovanili che cercavano di far si' che gli
anziani si comportassero da anziani. I visi lisci sotto l'elmetto che
apparivano sconcertati. Erano sconcertati. Senza capire nulla; credendo
che il ricordo fosse morte; rigettando tutto indietro. Cercando di fa si' che ce
ne andassimo come se non esistessimo. Come se non fossimo mai esistiti.
Tit. orig. 'In Memoriam', tr. it. Santoni Danilo
apparso originalmente in ISAAC ASIMOV'S SF, June, 1988
ristampato in Gardner Dozois (a cura di), THE YEAR'S BEST SCIENCE
FICTION, #6