Racconto di Giuseppe Iannozzi
Dove sono i generali
che si fregiarono
nelle battaglie
con cimiteri di croci
sul petto
dove i figli della
guerra
partiti per un ideale
per una truffa, per un
amore finito male
hanno rimandato a casa
le loro spoglie nelle
bandiere
legate strette perché
sembrassero intere
Dormono, dormono sulla
collina
dormono, dormono sulla
collina
Dormono sulla
collina, Fabrizio De André
Tempo non definito
Luogo non definito
La gamba gli era
stata amputata, ma lui ancora non lo sapeva. Sentiva ancora dolore al piede.
Costretto nel letto d'ospedale, il dolore era l'unica realtà che riconosceva. I
compagni non avevano avuto cuore di dirgli che una parte di sé era morta, ma
Charles sapeva benissimo che sul campo di battaglia aveva perso un pezzo di sé,
anche se non sapeva dire se fosse l'intelligenza o il coraggio o, forse,
l'umanità. Aveva ucciso perché così gli era stato comandato. Perché sentiva
che era un suo preciso dovere. Si era limitato a eseguire gli ordini
ricevuti. Perché così gli era stato insegnato. Perché, in fondo,
l'insegnamento ricevuto era dentro di sé prima che glielo gridassero nel
cervello. Sotto il sudario che avvolgeva la gamba, che più non era se non
una proiezione della mente, Charles sentiva che il dolore persisteva e si faceva
di minuto in minuto più acuto. Il cerusico, un ometto pelato che parlava con
voce stridula quasi fosse tisico, l'aveva visitato proprio quel mattino,
scostando le tendine della finestra, e l'aveva rassicurato che presto avrebbe
lasciato l'ospedale con le sue gambe.
"Lei è un giovane
fortunato. Congedo illimitato, riformato in pratica, mentre fuori tuona la
guerra", così gli aveva detto. "A volte penso che voi giovani siate più furbi di
noialtri che ci ammazziamo da mane a sera per ripulire il mondo dai dittatori.
Voi, con una scusa da poco, vi guadagnate la libertà." Charles non aveva
replicato sentendo che la febbre montava il suo corpo stracco e lo legava in una
stretta mortale. Si limitò a sorridere forzatamente fissando la gamba nascosta
sotto l'archetto di ferro accuratamente ricoperto da un sudario bianco.
"Non si preoccupi per
la sua gamba. Quella è il meno!", aveva aggiunto il dottore prima di squagliarsi
dalla camera.
Il sole filtrava
attraverso la finestra, ma la guerra tuonava e ogni colpo ovattato era eco nel
cervello indolenzito come un muscolo. Entrò l'infermiera. Non gli disse nulla:
si limitò a fargli la solita iniezione, che Charles sospettava essere morfina.
Non l'avrebbe mai
creduto possibile, ma dopo un mese era davvero in piedi e camminava e stava
tornando a casa. Sua madre avrebbe pianto, ma un abbraccio non gli sarebbe stato
negato. Poi sarebbe seguito il sollievo di sapere che era un eroe e che era
vivo, e che il frutto del suo grembo non era diventato concime per la terra
impastata di sangue. Luke, Joseph, Tonio l'avevano salutato con le lagrime agli
occhi, un sentimentalismo poco virile per dei pezzi di marcantonio come loro, e,
alla fine, anche Charles aveva lasciato che una lagrima prigioniera del cuore
scivolasse lungo le fredde gote per perdersi sulla punta del mento glabro. "Hai
la faccia un po' smunta, ma ti sei ripreso proprio bene", si rallegrò Tonio.
"Proprio bene. Marinella sarà felice di riaverti accanto. Goditela anche per
noi." E tutti e quattro i compagni avevano preso a ridere complici: la virilità
in fiore di Charles era evidente a tutti e tre e ne erano segretamente
invidiosi. Si strinsero la mano e così si lasciarono, non prima che Joseph
potesse regalargli l'ultima sigaretta. "Te la fumerai quando sarai a casa, alla
faccia nostra." Charles aveva sfilato la preziosa sigaretta dalle dita del
compagno e mai come in quel momento si sentì consapevole che la guerra è un
affare sporco che costringe gli uomini a uccidersi e a fumare le poche sigarette
razionate aspettando in trincea la grande falciatrice. Ma lui, lui segretamente
aveva sempre sperato di uccidere per una qualsiasi, non lo poteva negare a se
stesso, anche se per convenienza, coi compagni, si diceva costretto a farlo a
causa del tempo storico che si stava vivendo.
Camminava con passo
spedito, anche se il piede ogni tanto gli doleva, ma l'aria fresca dei monti era
un toccasana per i polmoni, che per troppo tempo avevano respirato la puzza
dell'umano sudore, della creolina, del pus dell'ospedale. Non si sentiva affatto
stanco, solo un po' depresso. Ancora navigava nella coscienza, o forse nel
ricordo, che in battaglia aveva perso un pezzo di sé. E non sapeva dire
assolutamente di cosa si trattasse. Una notte aveva sognato il volto di un
bambino vestito della sua nuda innocenza: aveva afferrato senza fiatare la
borraccia dell'acqua con le pargolette mani, e poi, improvvisamente, ne aveva
rovesciato il contenuto lasciando che fosse la terra a goderne. Era una
ossessione come tante che vagava nel suo cervello. Poi c'era il deserto e il
fumo e le grida di donne bambini vecchi, e ogni notte il tormento gli si
presentava uguale. Per tutto il tempo che era stato all'ospedale, aveva fatto di
simili sogni. Non era riuscito ad abituarcisi e ormai era sicuro che la guerra,
con la sua necessaria crudeltà, l'avrebbe tenuto ostaggio per il resto dei suoi
giorni. Anche la prima sera a dormire sotto una coperta di cielo stellato in
mezzo ai monti vicini al suo paese, Charles aveva sognato e si era svegliato
madido di freddo sudore con il cuore in panico a battergli nel petto come una
granata a cui sia stata strappata la sicura. Poco mancò che gli esplodesse in
petto. Sveglio, davanti agli occhi stava ancora il fantasma onirico di una
ragazza dai lunghi capelli corvini, il sorriso dell'avorio, ma non era normale
perché negli occhi c'era disegnato il terrore e questo accusava lui, Charles, di
averlo prodotto nell'anima di lei. E Charles provava terrore del terrore dei
fantasmi. Al mattino si sentiva stordito: non aveva riposato bene. Fu
tentato di fumare la sigaretta, ma poi desistette perché voleva che fosse il
fuoco del camino di casa ad accenderla. In un cielo terso volava una bianca
colomba a dispetto dell'eco di morte, che mai si attenuava neanche lì tra i
monti. Un pastore l'avvicinò timoroso gettandogli uno sguardo di rimprovero, ma
dalla bocca sdentata aperta in un urlo muto non uscì alcuna bestemmia. Charles
avrebbe voluto interrogarlo, ma quello era subito scomparso come una visione. Un
brivido gli corse lungo la schiena. Un refolo gelido gli penetrò nelle ossa,
mentre posava lo sguardo su una stella alpina cresciuta su un tumulo:
probabilmente lì era stato sepolto un sobillatore socialista o un nemico o un
civile, questo Charles non avrebbe saputo dirlo. Ma era chiaro che, sotto la
terra, disteso, giaceva la morte che un tempo era uomo.
Si spinse oltre i
monti, camminò fino a quando le forze glielo permisero, ma il giorno sembrava
non volesse finire mai. Raggiunse una vecchia chiesa cristiana: la croce del
Salvatore proiettava un'ombra sul pavé del cortile. Non ce la faceva davvero più
a camminare; quando il prevosto gli venne incontro con un sorriso quasi maligno
per invitarlo a riposarsi, non ebbe cuore di rifiutare l'invito. Entrò in chiesa
nonostante credesse poco o nulla nel Salvatore, anche se aveva ricevuto una
educazione cristiana che mai aveva abiurato per mancanza di coraggio. Per
convenienza, questo lo sapeva e non poteva negarlo in fondo al cuore. La
mancanza di coraggio era forse stato il motivo che l'aveva spinto a dichiararsi
interventista e a partecipare alla guerra come se fosse quello il destino che da
una vita attendeva. Ma era vero anche il contrario: un coraggio dissennato
l'aveva spinto a farsi assassino. Ma da quando era stato ferito, passata la
convalescenza, la guerra se non gli faceva orrore comunque lo disturbava, ma in
cuor suo sapeva che se gli fosse stato chiesto di tornare a uccidere, non
avrebbe esitato a rispondere affermativamente.
"Selvaggio è il
vento. Cenere alla cenere", biascicò il prete. Sempre il sorriso gli rimaneva
stampato in volto, un marchio di fede o di sfida, Charles non riusciva a
interpretarlo. Era un uomo come tanti altri, ma era strano come la guerra e i
motivi che spingono l'uomo a uccidere.
"Figliolo, ti starai
domandando tante cose."
Charles fissò l'uomo
nero vestito. Aveva parlato, ma la sua bocca non si era aperta, almeno questa
impressione registrò il suo cervello. I capelli color dell'argento erano radi
sul cranio smunto: due occhietti maligni come quelli di un ginn lo fissavano con
morbosa ostinazione e la bocca continuava a parlargli contro, ma non si apriva,
la mascella continuava a restare salda alla mandibola. Forse era solo una
impressione, un effetto dovuto alla luce negra simile a denso fumo che penetrava
nella chiesa, ma Charles non poteva fare a meno di constatare che non era
normale.
"Il vento è selvaggio
e le ceneri le porta seco il vento. Di questi tempi non si balla più nelle
strade e l'umanità è invasore alieno in una terra che più non è." Fu l'ultima
cosa che comprese prima di sprofondare in un sonno tormentato da un'orgia di
incubi, i soliti che mai l'avevano abbandonato da quando era stato ferito.
Svegliatosi cercò inutilmente il prete, ma questi era scomparso. Uscì all'aria
fresca per sgranchirsi le gambe, si guardò intorno, ma non una paglia si
muoveva, anche se il vento si ostinava a spirare. Ebbe la tentazione di
accendere la sigaretta che Joseph gli aveva regalato, ma anche questa volta
resistette. Lasciò vagare lo sguardo nell'intorno, ma tutto era quieto, così
decise che non era il caso di trattenersi ulteriormente e riprese il viaggio
verso casa.
Incrociò una coppia
di conigli mentre i piedi pestavano i prati in fiore congelati come in una
fotografia. Una gioia incontenibile corse al cuore, ma presto fuggì perché i
conigli se li era solo immaginati, altrimenti non sapeva spiegarsi la loro
improvvisa scomparsa. Lungo la strada per casa di queste apparizioni ne ebbe
molte. Troppe perché la mente non cominciasse ad esser ghermita da una febbre
smaniosa, forse primo sintomo di una incipiente pazzia. Lo stesso coraggio
dissennato che l'aveva spinto a farsi assassino. Man mano che avanzava, un
istinto omicida incontenibile si era promosso a sola ragione di vita nell'anima
di Charles, il soldato che tornava ad abbracciare la madre e la morosa.
Troppe erano le
apparizioni perché Charles potesse continuare a sopportarne il peso senza
tentare di difendersi, ma solo gli era concesso di farsi prigioniero dei
ricordi. E così la mente tornò a quando non era un soldato e la vita rideva con
lui in osteria insieme agli amici, alle donne, al vino e al fumo delle
sigarette.
Le risate saturavano
l'aria fumosa della taverna "A pittima". Gastone, Enrico, Dario, Fabrizio erano
ubriachi e la soda allegria quasi la si poteva palpare come il fondoschiena
d'una bella donna. E le donne errano estatiche, dionisiache, fate dolci e
maliziose che incantavano gli uomini con le loro risate cristalline, la cui
freschezza era simile a quella dei torrenti di montagna. Si stava proprio bene.
Il vino scorreva a fiumi: versato nel bicchiere, subito non c'era più.
Charles teneva in
braccio la Marinella e non riusciva a sciogliere l'incanto che la ragazza
suscitava in ogni suo muscolo: l'incarnato roseo della salute e la bocca rossa
come fragola matura erano invito al peccato, all'amore. Ma a stregarlo era la
delicatezza dell'attaccatura dei capelli, le tempie calde che mai si stancava di
baciare ripetutamente. Più le sue labbra sfioravano la fronte di lei, più il
cuore ebbro voleva ubriacarsi di felicità, perché così è la vita, quando la si
ha, se ne vuole sempre un pizzico in più rispetto al necessario. E' questa la
felicità di esistere in due, insieme.
Gastone, detto "baffo
rosso" per via dei mustacchi rossi quasi innaturali, era ubriaco fatto: capiva
solo che la vita poteva essere l'oppio naturale per prostituirsi a LEI senza
rimanerne scottato. Se fosse stato un po' meno brillo, avrebbe detto il
contrario. Ma era fatto e insieme agli amici non era disposto a sprofondare
nelle insidiose trame filosofiche del quid della vita.
"Allora quand'è che
te la sposi ‘sta bimba?", ruggì allegro.
"E' giovane. Lascia
che prima si diverti!", gli rispose Enrico sputando una nuvola di denso fumo.
"Lascia che faccia le sue scelte con calma."
Enrico era così,
sempre, per lui la vita doveva essere divertente e basta in ogni circostanza.
Per questa sua bonarietà quasi fanciullesca alle riunioni sindacali era un po'
inviso, soprattutto quando Fabrizio parlava agli operai perché facessero valere
i loro diritti anche con la forza se fosse stato necessario. Fabrizio era il
politico della compagnia: la sua vita era stata dedicata alla lotta e non la
smetteva mai di ripetere motti lenisti anche quando non era il caso. Ma era
anche un poeta, una sorta di Byron, perché non escludeva che i diritti potevano
essere conquistati non solo con l'azione ma anche con le parole, e queste,
all'occasione diventare pietre contro i manganelli dei picchiatori fascisti. Ma
Charles, pur conoscendo le idee di Fabrizio, taceva. Non c'era motivo perché se
lo facesse nemico. Comunque non così presto. Pensava: ‘Se il tempo me lo
domanderà, allora combatteremo da uomini, l'uno contro l'altro.'
"Divertirsi? Prima
uno se la deve guadagnare la vita", disse quasi sottovoce Fabrizio. Ma nessuno
fece caso alla sua osservazione.
Dario fece di nuovo
il giro dei bicchieri e invitò tutti a un brindisi.
La serata era volata
via. Charles abbracciato a Marinella la stava accompagnando sotto il portone di
casa sua, dove lui l'avrebbe dapprima baciata per poi sollevarle le gonne.
"Perché un americano
è venuto in Italia?", continuava a domandargli Marinella, ma mai aveva ottenuto
risposta, perché Charles subito soffocava la sua curiosità con un bacio. E anche
questa volta andò così. Ormai sotto il portone di casa, né Charles né Marinella
avevano più voglia di interrogarsi su niente.
Buddy, il padre di
Charles, era venuto in Italia perché in America gli anarchici come lui erano
rari e bastonati, e lui, Buddy, ormai non poteva più restare o ci avrebbe
lasciato la pelle in quel paese del cazzo. Aveva preso con sé il piccolo Charles
e la moglie, le poche cose che erano sue, e sputando catarro sull'imbarcadero si
era lasciato i natali alle spalle senza rimpianti. Stabilitosi dalle parti di
Genova, aveva provato a fare il pescatore, ma non era buono, così si era spinto
più in su e si era accasato in una zona, che era stato teatro di efferate
crudeltà contro i valdesi, così gli aveva raccontato una vecchia lamia che
doveva avere almeno cento e passa anni. Si era fatto pecoraro, aveva continuato
a essere un anarchico, ma in mezzo ai monti c'era ben poco da contestare, e alla
fine il suo spirito morì e se ne andò in una giornata di sole, brillo,
precipitando in un burrone. Charles era cresciuto pressato dalle amorevoli cure
della madre, una donna che non aveva alcuna pretesa intellettuale ma solo un
butirroso cuore. Dopo la morte del marito, aveva pianto, ma poi l'istinto
materno l'aveva temprata e nel giro di qualche anno sostituì il mancato consorte
in ogni faccenda. Charles crebbe in salute, imparò a leggere e scrivere, si
sbucciò le ginocchia, fece a pugni con gli amici, si innamorò di una ragazza e
poi di un'altra ancora, prese a scendere sempre più spesso giù, un paese che
contava poche anime e dove tutti sapevano tutto di tutti. Divenne un uomo.
Quando Charles non era fuori casa, lei sbrigava le faccende domestiche,
contrattava con i contadini, e a fine giornata, stanca, davanti al fuoco
lasciava che una lacrima le inondasse il viso al pensiero d'esser ormai sola e
vecchia. Fu per lei un colpo tremendo quando Charles partì per la guerra. Fosse
stato per lei, mai avrebbe permesso che il figlio si allontanasse dalla
sicurezza di quei monti; ma Charles era un testardo, e quando in paese sentì
dire che c'era una guerra da combattere, si consegnò di sua spontanea volontà
allo Stato per arruolarsi e combattere. E gli amici gli avevano voltato le
spalle dicendolo "sporco traditore"
"Ti insegneranno a
uccidere"
"Prima o poi accadrà
comunque. E poi io voglio imparare. Io sono un Interventista. Ma tu, mamma, che
ne capisci di politica?"
La donna non replicò,
perché non aveva argomenti: la politica le era sempre stata estranea e l'aveva
guardata con un certo sospetto, per questo aveva sposato Buddy Glass, un
anarchico, uno spirito libero che non aveva una tessera di partito. Troppo tardi
si era resa conto che non appartenere a nessuno equivaleva ad avere una tessera
di partito con il proprio spirito. Buddy ne aveva combinate di cotte e di crude,
e solo in Italia, in mezzo ai monti, il suo spirito era riuscito a morire.
Quando ascoltava il figlio fare politica, si spaventava: era diverso dal padre,
troppo, era il suo contrario e ciò la spaventava. Avrebbe preferito che fosse un
anarchico come il padre, che andasse a spaccare la faccia ai fascisti, e invece
Charles era uno di loro anche se non gliel'aveva mai detto apertamente. Nutriva
una gran pena per lui, perché pietà è morta, questo sentiva in fondo al
cuore. Ma mai avrebbe avuto coraggio di cacciare il figlio anche se era quel che
era, un assassino, o almeno, lo sarebbe diventato sicuramente in guerra.
Quand'era ancora in America e la giovinezza era dalla sua parte, la gente
l'apostrofava con un nomignolo che mai aveva capito sino in fondo, "letterina
scarlatta". Poi, un giorno, il suo Buddy le aveva spiegato e lei non ne era
rimasta affatto turbata: che la chiamassero pure "letterina scarlatta", a lei
non poteva dispiacere. Anzi, ne era orgogliosa. Ed era superbamente bella.
Charles Glass era partito per la guerra, e lei, letterina scarlatta ancora nello
spirito, se in fondo al cuore non poteva accettare che suo figlio era un
fascista, ancora più in fondo, oltre i precordi, l'aveva già perdonato. In
silenzio, l'aveva già perdonato in nome di tutte le vittime che sarebbero cadute
per sua mano. Ma in silenzio. E nel silenzio l'avrebbe riaccolto.
Aspettava che
tornasse, perché lui sarebbe tornato: ne era assurdamente convinta. La crudeltà
della guerra non avrebbe ucciso il frutto del suo grembo. Una madre, certe cose
le sente.
Le lenzuola
profumavano dell'odore del sudore amoroso insieme consumato; Marinella riposava
con una mano nascosta sotto il cuscino, lasciando scoperta la schiena fino alle
reni. Charles fissava la schiena perfetta della ragazza e non poteva non provare
un senso di commozione per la fragile bellezza di quella creatura con cui aveva
giaciuto. L'amava, ma non sapeva dire quanto. Forse più della sua stessa vita,
ma non ne era sicuro. Ma l'amava e solo questo contava.
Lei si svegliò. A
fior delle labbra una domanda stava per nascere, ma Charles la soffocò con un
fresco bacio prima che lei potesse parlare. Poi, prima di scomparire dal letto
di lei, le disse: "Tornerò. Aspettami perché io ritornerò." Marinella tirò un
sospiro di sollievo: il suo uomo era sicuro, una sicurezza animale c'era nei
suoi occhi e lei non aveva motivo di dubitare della sua sincerità. Gli credeva.
E quando i ricordi
furono esauriti, Charles si trovò davanti all'uscio di casa. Non c'era fumo, il
camino doveva essere spento. Un colpo si perse nel petto ansioso del giovane
tornato dalla guerra. Che fosse accaduto qualcosa? No, non poteva essere. Aprì
la porta con violenza, quasi la scardinò tanta era la preoccupazione.
E lei era lì, curva
sopra i tizzoni ardenti ad alimentare il fuoco.
"Sono tornato!",
annunciò con voce blesa dall'emozione. La donna si voltò che era già una
maschera di pianto: l'abbracciò e non disse nulla. Nulla, proprio nulla.
In silenzio,
apparecchiò il desco e osservò il figlio mangiare.
Charles non aveva
parole. Non capiva. Ma percepiva che qualcosa era cambiato.
Fabrizio era con
loro, non ci aveva fatto caso, ma stava bevendo il vino rosso di casa sua.
E finito che ebbe di
bere, si rivolse a Charles con un sorriso. "Ne è passato del tempo. Molte cose
sono cambiate. Anche tu. Adesso cammini con una sola gamba."
Charles rispose al
sorriso dell'uomo con un uguale sorriso. Poi disse con naturalezza: "Già. Sono
gli inconvenienti della guerra. Ma raccontami di voi!"
Fabrizio non si
scompose. "Che vuoi che ti dica? Qui è sempre uguale ma non è mai uguale!"
"E tu, mamma, tu non
dici niente?"
Silenzio. Continuava
a restare prigioniera del silenzio.
Rispose Fabrizio:
"Non puoi pretendere che ti risponda. Cenere alla cenere, il vento è selvaggio.
Non puoi pretendere."
"Capisco", si limitò
a rispondere Charles, anche se non capiva perché la madre se ne stesse muta a
fissarlo, felice ma muta.
"E Dario? Enrico?
Gastone?"
"Muti anche loro."
Charles sospirò.
"Capisco!", si limitò a dire concentrando tutto la forza della voce sul punto
esclamativo. Seguì una lunga pausa di teso silenzio. "Le cose sono cambiate
davvero molto", aggiunse, ma Fabrizio non disse altro. ‘In fondo sono un
traditore', così pensò.
Rimasero ancora in
silenzio consumando il resto del pranzo, bevendo come ai vecchi tempi, quando la
guerra era solo una remota ipotesi, quando ancora non si sapeva che Charles era
nato per diventare fascista. E forse era nato proprio così.
Charles si alzò per
primo e prese a camminare con la sua gamba come se ne avesse due: si fece
dappresso ai tizzoni fumanti ormai quasi sola cenere e cercò altra legna da
ardere, ma era finita: là dove doveva esserci una catasta di buon legno secco,
c'era solo una sconfinata pozzanghera di impenetrabile buio.
Era proprio giunto il
momento di fumare la sigaretta che Joseph gli aveva regalato prima che del
commiato definitivo, perché entrambi sapevano che mai più le loro strade si
sarebbero incrociate. La tirò fuori dal taschino della camicia nera che ancora
indossava e l'accese sulle ceneri che ormai andavano spegnendosi. Respirò una
boccata, due e tre.
Fabrizio e la madre
tacevano, si limitavano a osservarlo mentre fumava e traeva il suo piacere.
"Allora, nessuno mi
vuole spiegare?", sbottò rabbioso ma anche timido.
Fabrizio si alzò da
tavola, gli si avvicinò e lo baciò su una guancia, un bacio tanto simile al
sapore dei baci della sua Marinella. Fabrizio profumava del sudore della sua
donna. Ora capiva. O credeva di capire. Il silenzio non era perché era un
traditore?! Gli si scagliò contro buttandolo a terra, ma una volta stesi sul
freddo pavimento, si accorse che sotto di sé c'era Marinella. Un panico sordo si
impossessò di Charles. Che diavolo stava accadendo? Possibile che la guerra gli
avesse svalvolato il cervello fino al punto da non riconoscere la sola persona
che forse aveva amato più di se stesso?
La sigaretta
continuava a bruciare scagliata a terra, lentamente si consumava, e la luce
diventava negra e se ne moriva in una tenebra aliena. Presto fu tutto nero:
restavano solo le figure della madre e di Marinella e lui, Charles, che le
fissava avvolte dalla profondità delle tenebre.
"Una sola parola…",
pregò. "Una sola. Fatemi capire."
Silenzio.
"Non chiedo poi
troppo. Sono stato in guerra. Ho visto la morte. Ho perso una gamba. Ma sono
tornato perché l'avevo promesso. E, ora, mi accogliete così. Vi sembra giusto?
E' troppo da sopportare anche per un fascista!"
Ormai non c'era più
traccia alcuna di virilità, di odio o amore nella sua voce. Solo la paura
dominava il suo cuore.
Marinella
l'abbracciò, teneramente, con trasporto materno, poi lo baciò soffocando la sua
paura. E quando le loro labbra si separarono, con naturalezza disse al suo uomo
tornato dalla guerra: "Morti tutti."
E il volto di
Marinella non era più quello della donna amata, ma quello della madre, forse era
quello di entrambe. Poi scomparvero e Charles era da solo, solo, lui e
l'oscurità e la cicca fumante della sigaretta che bruciava ormai le ultime note.
‘Morti. Morti. Morti.
Morti', ripeté dentro di sé all'infinito.
Intorno a lui solo le
tenebre eterne vivevano. E dove poteva mai andare l'unico sopravvissuto di un
mondo che più non esisteva? E il colpevole era lui, lui solo, un soldato con una
gamba sola costretto a vagare nelle tenebre per il resto dei suoi giorni insieme
alla paura dell'eterna solitudine.
Ora sapeva che la
parte migliore di sé era morta in quel letto di ospedale, e questa era il mondo
che non avrebbe più accolto uomini in carne e ossa ma solo spettri partoriti
dalla sua mente. E il dolore per la gamba amputata, questo arto artificiale
l'avrebbe costretto a muoversi ancora verso un'altra guerra, che non sapeva
ancora dire perché si sarebbe fatta, forse per tentare di scacciare gli spettri,
forse per portarli di nuovo in vita.
Avrebbe voluto far
saltare le cervella a qualcuno, con un colpo alla tempia, giusto per scaricare
la tensione, la paura, il terrore della solitudine, ma tutto era nulla intorno a
lui. Forse l'unica via d'uscita era darsi la morte, ma era un fascista e mai si
sarebbe suicidato da sé. Fosse sopravvissuto almeno un fascista come Luke,
Joseph o Tonio… e invece pure loro erano spettri già da quando lui, Charles, era
in ospedale. L'ideale sarebbe stato un Non Interventista, allora avrebbe potuto
chiedergli la disumana cortesia di giocare ancora una volta alla vita e alla
morte.
Questa storia si è
svolta in un "non tempo" e in un "non luogo", forse nel futuro, ma è solo una
remota ipotesi. Più probabile che sia frutto d'un'allucinazione, incubo a occhi
aperti. Tutto continua a rimanere assurdamente confuso: fatti, eventi, date,
parole dette e taciute…