Racconto di Claudio Tanari
Da un quarto d’ora
navigavano nel tramonto, che arrossava la fiancata dell’overbus; verso sud la
valle si era sciolta nella foschia dell’orizzonte piatto, monotono. Più in alto
nuvole di calore e un’atmosfera spessa da cui un bagliore d’intensità pulsante,
purpurea, segnalava la posizione della cupola da riposo. I tre vulcani Arsia,
Pavonis e Ascraeus, della consistenza di un miraggio, recuperarono lentamente la
loro dimensione fisica: lungo i fianchi solchi scavati milioni di anni prima da
grani di polvere incandescente che erano scivolati verso l’altopiano.
- Guarda, Bruno: siamo arrivati.
Ilsa, che aveva seguito accanto a lui
le ultime fasi del viaggio, indicò le luci della Cupola Hellas e la scia
luminosa del faro mentre l’imbarcazione si preparava con calma ad attraccare,
lasciando depositare la polvere sollevata dai motori, nell’eccitazione
dell’equipaggio e dei passeggeri.
Percorsero la strada dall’approdo in
leggera salita verso il loro alloggio, dove trovarono il giardino avvolto
nell’oscurità, sul tavolo all’aperto un messaggio di benvenuto e una bottiglia
di vino.
- La cisterna è piena! - gridò Ilsa.
Vado a fare una doccia!
- Aspetta, vieni qui.
Lei si era già liberata del vestito
leggero scoprendo i seni chiari: un leggero sudore luccicava sulla pelle e le
incollava i capelli sulla nuca.
- Che intenzioni hai? - sorrise Ilsa
dirigendosi verso il letto.
Lui le accarezzò il collo.
- Ma sono sudata, aspetta...- la
donna si sottrasse sorridendo accanto alla finestra tra le valigie da disfare,
poi si arrese agli abbracci, finì di svestirsi; a luci spente Bruno riconobbe le
forme della moglie.
Quando Ilsa si addormentò, Bruno
rimase a guardarne la posa scomposta, le cosce, i seni appesantiti
nell’abbandono: da tempo i mutamenti di quel corpo erano diventati più visibili,
la pienezza delle curve stava cedendo il posto ad una specie di eccessiva
floridezza; si alzò dal letto in silenzio, imbarazzato della sua stessa goffa
nudità.
Fuori, dietro l’oblò, la massa scura
di Arsia celava una parte del cielo stellato; il ronzio del condizionatore gli
conciliò il sonno.
Fu svegliato dalla voce di Ilsa che
parlava con Frank.
Dall’oblò una striscia di sole
attraversava le lenzuola; guardò l’orologio, si alzò uscendo sulla veranda in
ombra.
- Dottor Boschi, ben svegliato!
- Ciao Frank, da quanto tempo...
- Dall’estate scorsa, più o meno.
- Accidenti: è un anno che non
venivamo?
- Colpa tua, intervenne Ilsa, e dei
tuoi convegni sulla Terra. Frank ci ha procurato una lancia a impulsi.
- Questa è una buona notizia!
Possiamo vederla?
- Giù al porto: sembra nuova.
- Andiamo subito, allora! Tra un’ora
al Molo B.
- Va bene. Arrivederci, signora
Boschi.
- Arrivederci, Frank, e mi saluti
Nina.
- Senz’altro.
- Ciao, Frank: tra un’ora.
- Certo, dottor Boschi.
Vista dalla strada
l’alloggio si presentava come un basso cubo preceduto dai pilastri massicci; sul
tetto, sormontato dalla gobba di una cisterna, spuntava la chioma di un gelso
che si sporgeva sulla cenere di un giardino ricco di piante testarde. Su tutto,
l’opalescenza traslucida della cupola e il giallo del cielo.
L’attenzione di Bruno si rivolse al
vulcano la cui cima, visibile da qualsiasi punto della pianura, era appena
velata da nuvole trasparenti. Percorse il breve tratto di strada fino
all’incrocio con la via principale, che tagliava l’abitato dall’Osservatorio,
proprio davanti al cratere Arsia. Sulla sinistra gli spazi lasciati scoperti tra
la parete curva della cupola e gli alloggi facevano scorgere a tratti la distesa
color ruggine della superficie di Marte; a destra, in leggero pendio, rocce e
sedimenti.
Quando tornò il modulo abitativo era
immerso in un biancore violento. Ilsa era accompagnata da Pierre, che le
mostrava i progressi delle verdure idroponiche nell’orto. Il gelso copriva buona
parte del terreno di fronte alla veranda con la sua ombra, ai piedi dell’albero
le more mature macchiavano il lastricato di rosso.
Ilsa assaggiò una mora; un’altra le
si disfece tra le dita.
Il pareo arancione sarebbe stato il
suo unico abito durante la permanenza nella cupola; tra poco avrebbe abbandonato
anche le scarpe. Si sfilò i sandali assaporando la sensazione del contatto
ruvido e caldo con la pietra, poi accomiatò Pierre che continuava a guardarle
sorridente i piedi. Salì sul tetto liscio della casa: da lassù si poteva
scorgere il tessuto variegato dei tetti degli alloggi. Per Ilsa la cupola
significava il compimento di quel lungo sogno che era stata la sua infanzia: il
lavoro del padre al completamento della terraformazione, gli studi di biologia
spaziale, il matrimonio con Bruno, un geologo anche lui innamorato di Marte. Si
spogliò sul materassino scolorito vicino alla cisterna: restò a guardarsi la
pelle bianca con gli occhi socchiusi, lasciando che una mano scivolasse di lato
sulla parete liscia del tetto.
La giornata alle pendici dell’Olympus
con Frank si era conclusa felicemente: Bruno era eccitato e bruciato dal sole,
Frank lo osservava divertito bevendo vino e gettando qualche occhiata sorridente
verso Nina e Ilsa, che ridevano gettando la testa all’indietro.
Domani conoscerete Alta.
Chi? - Risposero quasi al’unisono
Ilsa e Bruno.
Una biomec: è al seguito del
Professor Korda… - ridacciò Frank. Verranno a stare proprio qui, vicino a voi…
Oddìo: quei… cosi mi
imbarazzano sempre un po’ – fece Bruno.
Ma dài! Io ci ho lavorato spesso:
assolutamente affidabili, infaticabili… - disse Ilsa.
Ecco lo spirito teutonico… - replicò
Bruno sorridendo.
Hai detto che si chiama… Alta? - Si
illuminò Ilsa - Ma sì! Mi sembrava di conoscerla: ha collaborato al collaudo del
nuovo ricettore neurale, due o tre anni fa. C’ero anch’io nell’equipe di Korda.
Alta li salutò da lontano: aveva
indosso un vestito leggero e corto con le spalline e ai piedi un paio di grosse
e alte scarpe da ginnastica: i capelli neri corti, il petto esile e l’andatura
atletica le davano l’aspetto di un ragazzo, subito contraddetto dalle gambe
lunghe e sottili e dalla vita snella ed elastica. La bocca, dalle labbra carnose
era schiusa in un sorriso, mentre fissava, quasi scrutandola, Ilsa, che del
resto faceva altrettanto con lei: sembrava volessero misurare la distanza tra
l’umano e il non umano, colmandola velocemente nei pochi metri che ancora le
dividevano.
- Ciao…
Le due donne si abbracciarono dopo un
attimo di esitazione...
- E questo sarebbe il famoso Bruno! -
Lo squadrò per un attimo, prima di appoggiare la guancia sulla sua in un bacio
distratto, preferendo subito dopo tornare su Ilsa.
- Devi raccontarmi un sacco di cose.
- Anche tu. Come va il lavoro
all’Università?
- Le solite cose. Il Prof Korda ha
collaudato un nuovo sistema di trasmissione. Mi ha piantato qui per una riunione
ristretta su Luna 3.
Si avviarono verso casa mentre sul
molo stavano accendendosi i lampioni al neon.
- Ti ricordi la prima volta che ci
siamo conosciute? Eri stata appena...
- Sì, attivata! Da appena qualche
giorno.
- Quattro anni fa: mi sarei sposata
la primavera successiva.
- Caro Bruno, la tua Ilsa quell’anno
si scatenò! Adesso non lo vuole dire ma in quel convegno in Bretagna...
- Ma dài...- si schermì Ilsa.
- Ops! Dimentico la gelosia
retroattiva del maschio latino… ridacchiò Alta.
Alla fine della cena gli occhi neri
della biomec si erano fatti lucidi grazie anche ai bicchieri di vino che avevano
accompagnato il pasto. Alta accese una sigaretta offrendone una alla sua amica,
che la accettò.
- Da quando fumi? - chiese il marito
ad Ilsa.
- Eh, Bruno, quante cose non sai di
tua moglie - rispose la giovane ospite aspirando una boccata di fumo e
accavallando le gambe.
L’uomo si ritirò in cucina e stette
per un po’ a guardarle da dietro la persiana: Ilsa aveva già contagiato Alta con
la sua abitudine dei piedi scalzi ed entrambe, alzatesi da tavola, erano sulle
poltrone di vimini con i piedi sulla seduta, accoccolate una di fronte
all’altra, in una conversazione fitta. Ilsa gesticolava vivacemente nel parlare
e Alta l’ascoltava a volte seria, il palmo della mano a sorreggere la guancia,
più spesso sorpresa, arricciando il labbro superiore nel ridere e soffiando
lontano il fumo della sigaretta; poi era il suo turno di raccontare e lo faceva
stringendosi le gambe e poggiando il mento sulle ginocchia unite, lo sguardo
diretto verso il pavimento.
Bruno ascoltò a lungo le loro voci
abbassarsi di tono o esplodere in una risata o accavallarsi in un bisticcio
divertito, quindi le sentì sfumare impercettibilmente prima di addormentarsi.
L’indomani partirono per una gita di
un giorno al lago artificiale di Isidis. Poggiarono la lancia su un pianoro
isolato cui le concrezioni di zolfo davano una colorazione giallastra. Alta li
aiutò a svestire le tute: entrati nella grande cupola si liberò subito, spinta
da Ilsa, del costume rivelando un corpo pallido da adolescente; sui seni, appena
accennati, le areole appuntite e brune si inturgidirono a contatto con le onde,
che lambirono il piccolo pube, prominente e nero.
- Bruno, non vieni? - fu scosso dalle
voci delle due donne che lo invitavano a fare un bagno.
- Andate pure, vi raggiungo.
Il dorso ampio di Ilsa, i suoi
fianchi floridi si accompagnavano alle natiche asciutte e nervose di Alta e alla
sua schiena da cui emergevano, appena rilevate, le scapole.
Quando si allontanarono dalla
spiaggia, l’uomo si avvicinò ad una piccola depressione incorniciata dal giallo
dello zolfo affiorato e immerse le dita nel molle terriccio color ruggine del
fondo avvertendo immediatamente il calore umido provocato dalle esalazioni di
cui anche il fondo del lago era ricco, come testimoniavano le bolle di gas che
emergevano di tanto in tanto in acqua.
Ad un tratto, fu attirato dalle grida
eccitate di Ilsa e Alta che provenivano da dietro uno sperone di roccia lungo la
riva; corse in quella direzione e, scavalcato a nuoto lo scoglio, le vide
sdraiate a pelo d’acqua all’interno di una vasca naturale dal fondale basso, i
corpi rossi di fango.
- Che faccia che hai! Fa bene alla
pelle! - esclamò Alta.
- Dài, Bruno, che facciamo la cura
anche a te! - aggiunse Ilsa.
Rimase incantato a guardarle: Ilsa
stava massaggiando il seno e il ventre di Alta e intanto quest’ultima, raccolta
una manciata dello stesso fango, le tracciava sul volto, ridendo, dei segni;
anche i capelli subirono lo stesso trattamento, rimanendo impastati di quel
pigmento.
- Se pensate di coinvolgermi in
questa cosa, vi sbagliate di grosso. - si schermì celando a malapena un evidente
turbamento. Il fango, rapprendendosi, assumeva una colorazione ocra, sui volti
trasformati in maschere gli occhi vivaci e i denti candidi dietro le labbra
sorridenti brillavano di una luce più intensa: avevano assunto l’aspetto di due
creature aliene. La sua eccitazione non era passata inosservata: Alta restò a
studiarlo in acqua anche quando Ilsa si allontanò verso le stuoie, oltre la
lingua di roccia; Bruno si immerse e la affiancò: il pube e i capelli di Alta
avevano l’aspetto di fili metallici ossidati e contorti, l’acqua lavava via il
rosso che stingeva scoprendo la pelle lucida. Ilsa li osservava, una piega amara
sul volto.
Siete mai saliti su Pavonis? - aveva
chiesto Alta d’un tratto spezzando il languore di quel pomeriggio.
Ilsa e Bruno si guardarono
sorridendo: - Se ci siamo mai andati? La prima volta che mettemmo piede su Marte
- rispose Ilsa.
- No, senti: ci siamo arrampicati
lassù almeno due o tre volte... – fece pigramente Bruno.
- Vado subito in paese: insomma,
Bruno, non vorrai mica farci andare sole - fece con impazienza Alta.
- Veramente non ho ancora detto di
sì! - sorrise Ilsa accondiscendente all’eccitazione della ragazza.
Quel pomeriggio Ilsa e Bruno
giacevano nel torpore: Ilsa sembrava dormire, completamente nuda e sprofondata
nella sdraio: il suo corpo abbandonato metteva in evidenza le pieghe del ventre
e l’abbondanza delle braccia cadute dai braccioli della sedia. Alta si trovava
sotto il gelso con indosso soltanto dei calzoni corti dai risvolti arrotolati a
scoprire il più possibile le cosce: aveva preso a cogliere le more che pendevano
dai rami bassi dell’albero.
Bruno si alzò dalla sdraio
avvicinandosi alla ragazza: le mani di lei, gli angoli della bocca erano tinti
dalle more sfatte che teneva nelle mani giunte a coppa proprio sotto i seni dai
capezzoli scuri e lisci, anch’essi solcati da gocce di sugo violaceo; Alta tese
le braccia verso di lui offrendogli i frutti divertita, l’uomo afferrò una
manciata di more portandosele alla bocca e imbrattandosi del loro succo, lei gli
prese una mano e, con gli occhi socchiusi dalla luce del sole, se la portò alla
bocca succhiandogli le dita con le labbra strette, in un gesto infantile.
Ilsa, apparentemente assopita, aveva
assistito alla scena: il respiro regolare, la bocca semiaperta a simulare il
sonno.
L’Osservatorio Esterno era l’ultima
tappa prima del salto decisivo verso le bocche attive. L’edificio, un tempo
utilizzato per attività di studio dei fenomeni eruttivi, si sporgeva da una
terrazza naturale su vecchi crateri ormai spenti. I tre avevano lasciato il
paese nella tarda mattinata: le strutture bianche della base apparivano ancora
sospese in una sorta di dormiveglia. Bruno infagottato nella sua tuta per le
attività esterne, aveva davanti a sé lo zainetto colorato di Alta le cui gambe
snelle, terminavano dentro due grosse scarpe da ginnastica nere; ne seguì per un
po’ l’andatura: nello sforzo della salita i glutei tendevano il tessuto leggero
dei pantaloncini che le scoprivano le natiche fin dove una linea mobile le
separava dallo cosce da adolescente; la canottiera le scopriva una striscia
della schiena elastica, sulla nuca i capelli aderivano al collo sottile. Le si
avvicinò d’istinto, quasi a volerla toccare.
- Come va? - le chiese attraverso
l’interfono.
- E tu? - Per due vecchietti come voi
è una bella fatica, eh? Però Ilsa, che passo...
- Guardavo le tue gambe - la
interruppe.
- Lo so... - fece lei abbassando la
voce.
Terminato il passaggio in terra
battuta a tratti lastricata di basalto, il sentiero si stringeva insinuandosi
tra le pendici del vulcano. Alla fatica dell’arrampicata, che durava ormai da un
paio d’ore, si aggiungeva l’aria umida e calda, quasi tangibile, all’interno del
casco. All’improvviso, in corrispondenza di una angusta radura, un boato sordo
dal crinale della montagna annunciò la presenza ormai vicina delle bocche
attive. Bruno fissò di nuovo Alta: le braccia sollevate ed intrecciate dietro la
nuca, a mostrare le ascelle ombrate da una rada peluria; la canottiera lasciava
ora intravedere dalla sua scollatura il biancore dei seni appuntiti. Ilsa colse
lo sguardo di Bruno all’indirizzo della ragazza: Alta, libera da tuta e casco di
cui non aveva bisogno, lei impacciata dal gonfio guscio sintetico che le
permetteva di respirare e di non morire di freddo... non era la prima volta che
Bruno era attratto dalla bellezza di un’altra donna e non sarebbe probabilmente
stata l’ultima. Stavolta però era diverso: se in precedenza Bruno aveva cercato
le sue amanti occasionali tra le quarantenni colleghe di Ilsa, ora la scelta di
Alta significava qualcosa di più, un confronto temuto da quando quel corpo fatto
di reti bioniche e neurali aveva messo piede sull’isola: una biomec non
invecchia…
Le bocche eruttive esalavano
ritmicamente un respiro possente: i volti dei tre apparivano a tratti abbagliate
dalle esplosioni. Bruno guardava spesso Alta, alle prese con la macchina
olografica; lo sguardo di Ilsa si sollevò stancamente dallo spettacolo naturale
che si spalancava ai loro piedi: fissò a lungo Bruno, poi si posò sulle linee
flessuose di Alta. La donna inspirò profondamente quindi avanzò in direzione di
Alta. Bruno si rese conto improvvisamente delle intenzioni della moglie: la
biomec era in piedi proprio sul ciglio del costone di roccia che dominava
l’abisso del cratere di Pavonis; percepì il movimento di Ilsa, la vide avanzare,
ferma e decisa. La spinta di Ilsa le fece perdere l’equilibrio: lentamente, poi
sempre più rovinosamente precipitò giù, verso le fontane di magma, le dita che
artigliavano meccanicamente e inutilmente la cenere. Un attimo prima della
caduta, Ilsa aveva letto sul viso di Alta un ultimo sorriso, sorpreso e
incredulo.
Il cupo silenzio del viaggio di
ritorno si sciolse a fatica una volta rientrati ad Hellas. Certo, si trattava
ora di spiegare l’accaduto a Korda, presentandolo come un malaugurato incidente:
Alta era un biomec dell’ultima generazione, estremamente versatile e capace di
interagire a livelli cognitivi elevati… Ilsa colse il cruccio nell’espressione
di Bruno e gli strinse la mano poggiata sul tavolo: lui alzò gli occhi,
leggermente sollevato, per riabbassarli subito, colto da un’insopprimibile
sensazione di disagio.
Lei si diresse sospirando verso
l’oblò che guardava al tramonto di un sole lontano. La sagoma le parve dapprima
un riflesso sul pannello trasparente che li separava dall’atmosfera marziana, ma
poi ne indovinò i contorni, ancora riconoscibili: i brandelli carbonizzati di
epidermide e di fibre pseudomuscolari che coprivano a malapena lo scheletro in
osteolega… l’andatura non più spedita ma ancora sufficientemente elastica e, più
da vicino, galleggiante sul teschio glabro e consunto, quel sorriso: sorpreso e
incredulo.