un racconto di Marco Mocchi
L’avevano soprannominato il Poeta.
Le sue poesie avevano un solo scopo: dar vita alla tigre, la regina degli animali, la divoratrice di uomini, il terrore della giungla.
Per anni aveva scritto poesie, tutte titolate allo stesso modo, tutte sullo stesso argomento.
Gli anni passavano, e il Poeta continuava a scrivere immerso nel suo lavoro.
Un giorno raggiunse la perfezione: i suoi versi erano il ruggito della tigre, il suo respiro, i suoi movimenti. Ascoltando la poesia sembrava di vedere LA tigre. Non era più necessario darle un titolo, perché quelle parole, in quell'ordine, in quei versi erano LA TIGRE.
Il Poeta aveva raggiunto il suo scopo: aveva rappresentato il feroce animale, la sua essenza, la sua identità.
Ma non ne era soddisfatto.
Voleva vederla, vedere i suoi colori, la sua pelle di fuoco, gli occhi infernali.
Decise di dipingerla.
La gente del villaggio guardava senza capire quell'uomo diverso, che trascorreva i suoi giorni a cercare piante, fiori, cortecce e poi, nella sua capanna, li pestava e mescolava.
Il Poeta iniziò a dipingere la tigre su pezzi di legno, su pietre o su ruvidi pezzi di tela o di stoffa.
Man mano che gli anni passavano i suoi tentativi si avvicinavano sempre più a ciò che voleva rappresentare, finché un giorno anche il quadro perfetto venne dipinto.
I colori parevano muoversi, il vento sembrava soffiare sul manto dorato dell'animale, i suoi occhi parevano ardere: la tela era LA TIGRE.
Ma nemmeno questo lo soddisfò.
Voleva vederla nello dominare lo spazio con la sua maestosità.
Decise, allora, di scolpirla.
Trascorse giornate intere a cercare morbida argilla per portarla nella sua capanna. Un giorno, quando ne aveva raccolta una quantità enorme, iniziò il lavoro.
Il tempo correva e a poco a poco l'argilla modellata prendeva forma, ed era così perfetta che anche il manto della tigre sembrava vero.
Dopo innumerevoli tentativi e mesi di lavoro, l'opera venne terminata e, dipinta coi colori della tigre, sembrava pulsare. La scultura sembrava sul punto di camminare con passo felpato e pareva muoversi in silenzio.
Una sola cosa le mancava: la vita.
Erano passati da quando l'uomo si era dedicato alla poesia: i bambini di allora erano già adulti e avevano già dei figli.
Il Poeta non si era accorto né dello scorrere del tempo, né che la sua vita, a poco a poco, era scivolata via nel tentativo di dar vita alla tigre. Si chiuse nella sua capanna per molti giorni e per molte notti.
Un pomeriggio, dalla capanna del Poeta si udì un ruggito. Subito dopo, un'enorme tigre, col passo lento quanto maestoso e terrificante, uscì. Il suo manto risplendeva d'oro, i suoi occhi bruciavano come un fuoco nella notte, i suoi denti e la sua bocca erano rossi di sangue fresco.
La gente del villaggio rimase paralizzata al passaggio della regina degli animali, un silenzio mortale incombeva su di loro.
La tigre, poco a poco, accelerò il suo passo, scomparendo nella giungla selvaggia e, con un ultimo ruggito, diede il suo addio.
Gli abitanti del villaggio corsero affrettatamente verso la capanna da cui la tigre era uscita e si fermarono sulla porta, guardando scioccati e impauriti il corpo di un vecchio, il vecchio Poeta, insanguinato e fatto a brandelli, sdraiato sulla fredda terra, ed il suo volto, sporco di sangue e privo di vita, segnato da un profondo sorriso.