(Une dernière chance.)
un racconto di Lionel Bénard
Entro un secondo Hermann Guillerdin, professore di storia,
morirà. Ogni fibra del suo essere si separerà dall’anima
per essere inviata verso uno di questi nuovi mondi da colonizzare. Non
è un esploratore, tantomeno un avventuriero motivato dalla
scoperta di nuovo terre e nuove genti. Niente affatto. Tiene dei corsi
in un collegio della periferia parigina: assolutamente banale, in
effetti. Tuttavia, il meno che posso fare è dire che questo
involucro inanimato, questo anonimo professore, sono io. Io vedo
Hermann e distinguo i suoi pensieri.
È dunque un Hermann nudo, il viso mascherato dal casco, il
ventre coperto da un cordone ombelicale metallico quello che è
diretto verso un mondo migliore per un viaggio di durata indeterminata.
I nostri visitatori da Sirio hanno indotto in noi una fiducia cieca
grazie alla loro tecnologia. Rimangono scampoli di mistero, ma per
Hermann come per molti altri come lui, non ha la minima importanza. La
sua vita si può riassumere in una parola: scacco. Non ha
altro da perdere che l’anima, la mia anima. Strano vedersi in
questo modo. Non so quando finirà. I Siriani non ci hanno detto
nulla in proposito.
L’équipe medica mi ha preceduto: poco prima della “grande
partenza” avrò delle visioni del passato e soprattutto del
futuro. Perciò quando si verificano davvero non sono affatto
sorpreso, ma mi attendevo qualcosa di meno realistico.
* * *
Hermann fa colazione in terrazza insieme a Marie quando i visitatori
arrivano. È domenica pomeriggio, la giornata si annuncia dolce.
Marie tiene le mani premute contro il ventre. Ogni tanto, Hermann tenta
di percepire il minimo movimento di nostro figlio. La vita sembra
facile e la coppia la assapora con piacere. Senza dubbio questa
felicita avrebbe potuto durare più a lungo se non fosse crollata
per un evento drammatico.
Alle tre del mattino, due mesi dopo la nascita, la nostra dolce,
magnifica Ysa, la nostra perla, la nostra bambina è
improvvisamente morta in mezzo ai suoi peluches.
La brutale scomparsa della piccola cambia completamente la vita di
coppia di Hermann. Marie non riesce a riprendersi, il dramma pesa
talmente che è impossibile ignorare il dolore. Maria sa che deve
sopportarlo da sola, e questo malgrado l’amore e l’affetto per Hermann,
perché lui non la capisce più. La tragedia è
passata, lui non ignora la portata di ciò che la loro coppia ha
sofferto, ma cerca di ridurla. Per lui il decesso di Ysa è una
prova da superare e subito dopo lasciarsi alle spalle.
Il ricordo di mia figlia si offusca con il passare degli anni, solo la
tragica memoria di saperla scomparsa rimane.
Guardo Hermann più attentamente. Come ha potuto minimizzare
questo dramma? Cortocircuita la propria afflizione con un atteggiamento
che vorrebbe positivo, ma si sbaglia. Cerca di confortarla dicendole
deve seguire il proprio corso e Marie invece si allontana sempre
più, non sopporta i suoi baci e le sue carezze. Talvolta il
silenzio soffoca la coppia. La tristezza è così grande
nel cuore di Marie che Hermann si scusa quasi ogni giorno. Quando fanno
l’amore, tenta di mostrarsi rispettoso e domanda se non preferisca
astenersene, lei risponde di no, che non la disturba continuare.
Hermann vede la sua coppia disintegrarsi, il loro destino prende uno
sviluppo imprevisto che non riescono più a controllare, e che
osservano come spettatori.
La loro separazione si concretizza una sera dopo cena. Poche parole,
l’essenziale, poi si coricano per l’ultima volta nel letto. Harmann
vuole prenderle la mano, ma lei lo allontana. L’indomani mattina si
alza per primo, beve un caffè, ritorna in camera per preparare
le proprie cose. Inciampa in un peluche della figlia, evita di
lasciarsi sommergere dall’emozione della domanda che ha eternamente in
testa: perché noi?
Si rifugia con la valigia in una camera d’albergo. Le sue giornate si
possono riassumere facilmente: sveglia, coso di Storia e ritorno alla
camera per una cena davanti alla televisione. Le scoperte tecnologiche
si fanno sempre più numerose a mano a mano che procedono gli
scambi tra i Siriani e le diverse nazioni. Ogni giorno porta la sua
quantità di novità. Al liceo tutti ne parlano: i
colleghi, gli amici (rari) e gli allievi. Al termine del corso
Stéphanie, adolescente con il seno pesante e i fianchi di vera
donna, gli sussurra qualcosa facendogli scivolare nella tasca del
vestito il sacchetto d’erbe commissionato il giorno prima. Lui porge
alla ragazzina una copia nella quale si nasconde un biglietto da venti
euro. Lei ringrazia strizzando l’occhio, Hermann risponde con un breve
sorriso. Ha paura di questa ragazza, delle altri e anche di se stesso.
Non sa neppure come chiamarla, questa paura. Solitudine? È senza
dubbio per questo che le dà il suo numero.
La testa posata sul ventre nudo di Stéphanie, Hermann segue con
gli occhi la rotondità di un seno. Cancella una traccia di
sudore dissimulata in una piega. Non desidererebbe fare altro che
carezzare le curve di questo corpo dalla pelle di latte. Da parte sua,
la giovane è soggiogata da ciò che vede sullo schermo:
ogni giorno, ambasciate di tutte le nazioni affluiscono verso il
Mediterraneo, dove un’astronave gigantesca sfida le onde agitate e
migliaia di imbarcazioni navigano intorno nella speranza di poter
entrare in contatto con gli extraterrestri.
— Ti rendi conto, — gli dice lei, — abbiamo la possibilità di
vivere una cosa come questa?
— Vivere cosa? — Domanda Hermann.
— Ma questo, — risponde Stéphanie indicando la televisione. —
Sembra ci abbiano regalato il rimedio contro l'Aids.
— Dài, che bello! Potremo scopare come ci pare...
— Sei scemo...
Più mi sforzo di comprendere l’aggressività di Hermann,
più la visione diventa fluida. Hermann desidera deviare il
proprio dolore, negarlo se possibile. Alcol, droga, sesso procurano
spossamento, talvolta un sonno senza sogni, un torpore in cui
l’intelligenza sprofonda nei luoghi più nascosti, in particolare
quando il corpo ha un peso immenso, al punto che le membra non possono
muoversi. Ma questo genere di sogno non dura: la paura ritorna, lo fa
alzare violentemente nel letto in piena notte. E, come stasera con
Stéphanie, vuole che se ne vada: la sua giovinezza e il suo
stupore lo disturbano, perché gli ricordano la propria
sofferenza e alienazione. Lei se ne andrà come le altri e lui
tornerà alla sua solitudine.
Hermann e Stéphanie non si sono accorti della comparsa, su uno
dei muri della camera d’albergo, di una sala d’ospedale con monitor
cardiaci, un letto e un vassoio in acciaio per pasti. Mio padre Roger,
fumatore incorreggibile con un cancro in fase terminale, vive le sue
ultime ore guardando la televisione. Il suo stato di salute è
verificato in continuazione; un’infermiera entra nella camera, prende
il braccio di mio padre per misurare la pressione. Roger la osserva e
improvvisamente si vergogna della pelle flaccida. Un tempo questo
braccio era pieno di vigore e di forza. Vorrebbe dirlo a questa giovane
donna.
— La vita è un terribile incontro di boxe, terribile! — Dice con
voce rauca.
I gesti dell’infermiera restano regolari. Roger gira la testa verso la
televisione.
— Crede che potrebbero guarirmi con una delle loro macchine?
— Non so, signor Guillerdin.
Mio padre da una voglia improvvisa di aprire la mano e stringerla sul
fragile polso femminile. Vuole mostrarle fino a che punto è
debole, non per farle paura, ma per metterla in guardia contro la
propria giovinezza così delicata.
— Si immagini su un ring con una benda sugli occhi, — dice. — I colpi
arrivano ma non sa da dove. Senza regole, senza arbitro, senza giudici
per dire “stop!” Così che deve incassare e dopo si corica e si
raccoglie su se stessa.
L’infermiera arretra e guarda mio padre. — Non so cosa dirle, —
risponde con dolore.
— Dunque non dica niente, non è grave.
Mi avvicino a mio padre. Gli mormoro all’orecchio che la giovane non
dovrebbe rifiutare l’appuntamento di stasera. Non leggo dentro di lei,
ma ancora meno distinguo il viso dell’uomo dietro la porta, attento
alle parole scambiate qui dentro, ai gesti misurati.
— È nubile?
— Signor Guillerdin...
— Bisogna approfittare della vita, signorina. Forse c’è un
ragazzo fuori della porta che aspetta di proporle un aperitivo... Basta
una volta!
— Ne ha di queste battute di spirito!
Roger vorrebbe rivedere suo figlio. Per un istante ha creduto che
Hermann fosse accanto a lui, per sgocciolargli strani consigli
nell’orecchio. Roger pensa a questa coppia piena di vita che senza
dubbio finirà per amarsi grazie a quello che lui ha appena
detto. Si sente improvvisamente solo e vecchio. Quanti amori mancati e
amicizie dissolte sono scomparsi da questo ring oscuro?
L’attenzione del vecchio torna alla televisione. Un’emittente annuncia
in continuo le evoluzioni e i cambiamenti in tutto il mondo, i
conflitti che nascono nel Mediterraneo, i progressi nella medicina; lui
si domanda cosa potrebbe fare se fosse di nuovo in salute.
E io? Cosa possono fare per me, questi visitatori carichi di
promesse? Darmi un’altra vita? Roger si ricrede, è troppo
affaticato moralmente, vivere una seconda esistenza non sarebbe la
soluzione migliore.
Nella stanza si formano delle ombre. Sono i miei nonni scomparsi da
tempo, e anche mamma. Un’emozione molto forte scuote il corpo di mio
padre. Le lacrime appaiono, e scivolano sulle guance. Chiude forte gli
occhi quando lei gli dice che lo ama, e le tende la mano. Papà
gira la testa verso di me e sorride. Gli carezzo la fronte e lo
abbraccio teneramente prima di andarmene.
Al momento della mia partenza, il suono continuo del monitor cardiaco
riempie la camera.
* * *
Mi allontano sempre più veloce.
In un edificio di Nogent sur Marne, un appartamento abitato da famiglie
africane è in fiamme. Lo stretto androne impedisce a tutti di
scendere e i numerosi pompieri non possono raggiungere l’ultima stanza
all’altra estremità della costruzione. Si nasconde dietro una
porta deformata dal calore. La maniglia è così rovente
che il bambino non può afferrarla. Rimane sdraiato in terra come
gli hanno insegnato a scuola. Si dice che presto verranno a cercarlo.
Il fumo e i gas tossici scivolano verso il ragazzino, si introducono
nei polmoni. Tossisce e piange. Voglio afferrarlo tra le braccia,
allontanarlo da questo inferno, ma non ci riesco.
— Mammaaa! — Grida. — MAMMAAA.
Serro gli occhi quando il bambino non si muove più. Il silenzio
risuona improvviso nella stanzetta.
* * *
Mi allontano ancora.
Davanti a uno dei figli, un uomo picchia la moglie che cade per terra e
non si rialza. Il piccolo carezza la fronte insanguinata della madre e
piange. Il padre se ne va nell’altra stanza a guardare una partita di
calcio.
Una creatura diafana attende all’altra estremità della cucina. I
suoi lineamenti mi risultano sconosciuti e al tempo stesso vagamente
familiari. Tende la mano verso la donna in terra. In preda alla
collera, mi inserisco tra la creatura d’ombra e la madre senza
conoscenza. Leggo la sorpresa sul volto dell’apparizione.
— Lei non può... — balbetta.
— Non posso cosa?
— Impedirle di venire.
Guardo il bambino con le mani coperte di sangue e la faccia imbrattata
di lacrime. So in anticipo che non posso salvare sua madre, ma forse
aiutare il piccolo nelle sue scelte. Gli mormoro all’orecchio di
afferrare il telefono, di chiamare i soccorsi. Il ragazzino sussulta,
si asciuga le lacrime e si precipita verso l’apparecchio telefonico.
— È fuori dalle regole! Dice ancora la voce.
— Vattene!
L’ombra scuote il capo e se ne va con gravità.
* * *
Il Mediterraneo mi attira.
Attraverso città e regioni.
A mano a mano che mi avvicino, percepisco la presenza di milioni
d’altri che convergono verso l’astronave di Sirio. Le distanze non
contano nulla, neppure il tempo.
Mai avrei immaginato di trovarmi così vicino a questa macchina.
Le catene televisive trasmettono ogni giorno immagini satellitari,
vista dallo spazio è una testa di spillo dai riflessi cangianti
sulla sfera terrestre.
Dall’altezza di un chilometro, il manufatto è una gigantesca
cupola marezzata dai colori mutevoli, come di mercurio. Imperturbabile
in mezzo alle onde spinte da venti violenti, la base poggia su
imponenti pietre vulcaniche. Lampi rossi rischiarano crepe dentellate.
È una città strappata al suolo, le fondamenta trasportano
frammenti di lava fusa.
L’immenso insieme forma un anello colossale. L’istante zero nel corso
del quale milioni di esseri come me partiranno è imminente.
Penso a quel bambino prigioniero delle fiamme, la cui immagine
perseguiterà tutta la vita del pompiere entrato a cercarlo.
Penso a quel bambino che, dopo avere salvato sua madre, passerà
la vita a tentare di proteggere quelle degli altri. Penso a mio padre
al quale ho potuto a malapena dire addio. Penso amia figlia Ysa che mi
manca. Penso a ciò che può sconvolgerci senza che si
possa comprendere e che contiene la domanda di sempre, “Perché?”
Questo viaggio non sarà ciò che potremmo attenderci,
terre e pianeti stranieri e lontani, l’esplorazione dell’universo
sconosciuto e di una conoscenza prossima alla magia. Prima di partire
dobbiamo essere pronti, ma forse non è ancora il caso
dell’umanità, a meno che non ci abbiano dimenticati.
Cosa occorre per attirare l’attenzione?
Infrangere le regole.
I Siriani hanno la tecnologia e la potenza, noi abbiamo
l’immaginazione. Mi tornano in mente vecchi insegnamenti. Dall’ipotesi
nasce l’esperienza, diceva Konrad Lorentz, e la storia
dell’umanità passa attraverso un susseguirsi di esperienze
scaturite da ipotesi. Come per la nascita dell’universo, sono certo che
all’origine c’è qualcosa, qualcosa che si può chiamare
Dio, ipotesi tra tante altre. Sul nostro pianeta avanziamo a tentoni,
da milioni d’anni facciamo esperimenti senza altro risultato che
l’errore. Non voglio Biasimare nessuno. Avendo tempo, si dice che una
scimmia può imparare a suonare Beethoven. A ogni svolta della
storia si ha una fattura, un avvenimento così intenso da rompere
i ricordi e forse anche altro.
Senza dubbio è per questo che siamo tutti qui adesso.
In questo momento zero, abbiamo la possibilità di provocare
questa frattura e dare un senso alla nostra esistenza.
È quello cui aspiro, trovare un senso alla vita.
È tempo di partire, mormora una voce femminile,
leggermente grave.
Alzo la testa e mi rendo conto che mi trova fra gli ultimi. Entro una
manciata di secondi sarò solo. Ho il desiderio improvviso di
comprendere la ragione di questo, le visioni, la mia presenza qui.
Intorno a me, migliaia di altri esseri eterei avanzano verso il
manufatto. Alcuni rallentano, impegnati in conversazione con qualcosa o
qualcuno, varcano convinti l’ultima soglia per scomparire nell’enorme
cupola dall’aspetto di metallo liquido.
— Perché lo fate? Perché sono così persuaso che la
mia partenza sarà utile per me e anche per gli altri?
Abbiamo delle stime, dei calcoli così precisi da surclassare
la comprensione umana.
— Ma manca qualcosa, non è vero? Il fattore X che vi sfugge e
del quale avete bisogno per sapere se le vostre valutazioni sono
esatte.
No, è la vostra capacità di smarrirvi che ci ha
portati a scegliere la razza umana fra le altre dell’universo.
— Smarrirci? Siamo a un punto tale da giustificare le vostre
esperienze, le vostre previsioni? Siamo così incapaci da darvi
il diritto di prendere decisioni al nostro posto?
Sì.
— A ogni errore umano, centinaia di interventi per correggerlo.
È insufficiente e non permette di rivedere i nostri obiettivi.
— Di conseguenza ammettete che la nostra presenza rappresenta
un’incognita, che non avete tutto sotto controllo, i vostri obiettivi
ancora meno. Una volta a bordo della vostra macchina, dove andremo?
A testimoniare l’indifferenza di colui che chiamate Dio.
— Mi parlate di indifferenza, ma cosa fate per coloro che si spengono
in solitudine? Nulla. Ho accettato di essere qui, come milioni d’altri.
I giornalisti vi seguono notte e giorno, telecamere alla mano o via
satellite. Tutto il pianeta sa che siete qui. Nel frattempo c’è
gente che muore per incendi o incidenti. È la vostra
indifferenza che vi blocca, siete incapaci di affrontarla.
Non possiamo assumere la responsabilità delle vostre morti.
— Ma questo non vi distrae dal chiedere l’intervento di milioni di
persone per risvegliare Dio. Ditemi che tutto questo non è che
una fantasia, un incubo che potrò dimenticare.
Non è una fantasia. Andiamo, dobbiamo partire.
— Io non voglio più partire.
L’astronave diviene silenziosa. Le onde il vento non fanno più
rumore. I movimenti rallentano. Il tempo riprende il suo ritmo. Davanti
a me, le nuvole di vapore circondano il manufatto e sfere luminose
scintillano prima di sparire. Una pioggia fine cade sul mare.
Lo choc delle gocce sul mio corpo aumenta, si trasforma in pressioni
multiple. La mia pelle trasmette onde di dolore così intense da
diventare insopportabili.
— Non si muova, signor Guillerdin, soprattutto non si muova! Mi
ascolti, altrimenti rischia di ferirsi.
Schegge infiammate in ogni poro della mia pelle.
Mal di testa. Luce che ferisce. Articolazioni arrugginite.
Uomini in tenuta medica slacciano le cinghie che trattengono le mie
membra. Mani mi sollevano e mi aiutano a sedere. Afferro un bicchiere
offerto da una donna, bevo con piacere. L’acqua mi riempie la bocca, mi
inonda la gola gonfia e secca. Emetto un sospiro di disagio.
— Come si sente? — Domanda la donna.
— Mi avete rivoltato come un calzino, no?
— Più o meno.
Deglutisco, inghiotto un’altra sorsata, poso il bicchiere fresco sulla
fronte. Ho appena coscienza della mia nudità e della gente che
si affanna intorno a me. Penso a quello che ho vissuto e ho
l’impressione di perdere terreno. Le lacrime scorrono, non riesco a
trattenerle.
— Lo stress post-traumatico del viaggio scomparirà tra un
istante, — prosegue il medico. — È uno degli stadi da superare,
ma non sarà lunga.
— Credevo di non essermi mosso.
— Sta per ricordare un certo numero di cose. In particolare, la ragione
per cui si trova qui.
Mentre un infermiere mi fornisce una tuta di ricambio blu, la donna si
siede al mio fianco. Il suo atteggiamento si modifica sensibilmente.
— Si ricorda perché si trova qui, signor Guillerdin?
— L’esperienza. La seconda possibilità.
Lei annuisce. — Molte persone desiderano che la loro vita prenda una
direzione differente. Sperano, un giorno, di cambiarne il corso. Oggi
ciò è possibile grazie a questa installazione. Si
può esplorare l'avvenire, accettare certi percorsi e rifiutarne
altri. La scelta sta a voi. Noi mettiamo a disposizione i mezzi, voi
fate il resto.
— Era così reale. Com’è possibile...
— ...Che fosse vero? Il suo corpo è rimasto qui, ma la sua mente
ha preso uno slancio sufficiente per andare più lontano. Secondo
i nostri calcoli, il suo viaggio non è durato che un minuto.
— Ho visto gente entrare in quel vascello.
— Un modo per rappresentare la morte di quelle persone.
— Credevo che avessi la possibilità di seguirle.
— L’aveva, ma ha preferito ritornare.
— Non ne sono sicuro. Mia figlia e mia moglie, senza parlare di mio
padre che è morto.
— Signor Guillerdin, quando è arrivato qui stamattina ha
compilato un questionario. Lei non è sposato, non ha figli e...
Attenda un minuto...
— La praticante diteggia su una console olografica, sposta dei
documenti con un gesto della mano. Un dossier emerge in primo piano.
L’immagine si ingrandisce. C’è la mia foto, la mia impronta
genetica. Il medico preme un link. La scheda di mio padre appare
davanti alla mia.
— Suo padre è attualmente in cura in un’unità di
trattamento oncologico. Sono felice di farle sapere che non è
morto. È un caso grave, ma...
È vivo. Realizzo appena quello che mi ha detto. Giro la
testa per distinguere la flebile luce del giorno e la fine di un
acquazzone. Oltre gli alberi del parco del complesso ospedaliero,
immagino le vie e le strade che portano al mare, a quei momenti passati
con mio padre. Mi teneva la mano, camminavamo nell’acqua schiumosa di
alghe.
Più tardi, la sera, mi autorizzano a salire nel reparto malattie
gravi. Il poli-pilota mi guida lungo i corridoi. Preso nei miei
pensieri, quasi spingo in terra una donna. È solo mentre mi
profondo in scuse che la riconosco. Marie. La mia futura compagna e
madre di nostra figlia.
I miei occhi si attardano sul suo viso. Il ricordo dei drammi futuri mi
assale, in particolare quello terribile della bambina. Le lascio andare
la mano prima di darle la schiena. Sento un’imprecazione mentre mi
allontano. Non dobbiamo assolutamente conoscerci. Questo nostro primo
contatto non deve avere un seguito, per il nostro bene.
Sono diviso tra delusione e sollievo. Delusione di vedere che un pezzo
della mia vita futura scompare nell’ombra di un corridoio. Sollievo
perché so che un nuovo avvenire si avvicina.
Quando il poli-pilota mi segnala che siamo arrivati a destinazione. Il
mio cuore batte selvaggiamente. Attendo dietro la porta. Un’infermiera
prende la pressione al mio vecchio padre, che guarda la televisione.
Vedo il suo sguardo triste mentre lo sento parlare di boxe.
L’infermiera lo aiuta a alzarsi nel letto, apre le tende e la finestra
per dare aria alla stanza. Mi vede e dice qualcosa a mio pare. Il suo
sguardo si volta su di me. Sorride.
— Entra! Figlio, entra!
Abbraccio mio padre senza dire una parola. Mi prende la mano. Il polso
è fermo e la pelle morbida, come nei miei ricordi di bambino.
Ricambio la sua stretta.
— Ho sognato questo momento, figlio. Non ti immagini quanto mi sei
mancato.
— Anche a me, papà, ma adesso sono qui.
Silenzio. Ci guardiamo, incerti da dove cominciare.
— Sei sempre single? Te lo dico perché è single
anche quella ragazza che hai appena visto. E non è male.
Chissà che non ci sia una possibilità. Perché sai,
figlio, la vita è come un ring: quando non hai nessuno che ti
alleni, puoi finire in fretta per terra senza sollevarti più...
Traduzione di Franco Ricciardiello