Il canto dei leviatani
Data: Sabato 24 luglio 2004
Argomento: Narrativa


un racconto di Claudio Tanari

 

2000 / 2100

Temperatura di Terra +1,4 / 5,8° C.

Livello dei mari +8 / 88 cm

 

2000 / 2100

Temperatura di Terra +1,4 / 5,8° C.

Livello dei mari +8 / 88 cm

2015

Prima base scientifica permanente sulla Luna.

 

 

2017

Mar Caspio completamente asciutto

2020 / 2035

Otto missioni Ares NASA-ESA (dal II al X) raggiungono il Pianeta Rosso

 

 

2025

Cento milioni di rifugiati ambientali

 

2030

Trecentomila morti a causa del riscaldamento globale

2040

Manipolazione nucleare del Terbion 11.

Nuovo sistema di propulsione a velocità Lux 2

 

2050

La Compagnia EnerTerbion realizza il monopolio dell’estrazione e del commercio dell’elemento

2050

Fondazione dell’OSA, Outer Space Agency: aderiscono UE e USA

2050 / 2070

Stazioni spaziali intorno a Giove e Saturno.

Colonie umane stabili su Marte e avvio della terraformazione

2060

Nasce il Consiglio Interplanetario, un’emanazione del Consiglio Globale

2070

Prima sonda robotica OSA su Europa

 

2073

La Compagnia EnerTerbion viene autorizzata dal Consiglio Globale ad eseguire le prime trivellazioni robotiche su Europa.

Individuati enormi giacimenti di Terbion 11 su Europa

 

 

2075

Seychelles, Mauritius, Maldive, Fiji, i delta del Sud Est Asiatico e del subcontinente indiano sommersi: decine di milioni di senzatetto

2100

Bombardamento nucleare e primo scioglimento del pack di Europa ad opera dell’EnerTerbion

2100

75% di New York City inondato; Venezia completamente sommersa

2110

Esplorazione dello Spazio Esterno (Missioni OSA Prometheus III – XIII) verso Urano e Nettuno.

 

2120

Prime missioni umane su Europa, Encelado e Titano.

Scoperte forme di vita monocellulari su Europa.

Anche su Encelado il Terbion 11 è presente in enormi quantità

 

2140

Inizio delle attività estrattive stabili su Europa ed Encelado

 

 

2145

“Secessione” inuit su Europa

2200

Quarto rapporto del Consiglio Interplanetario circa il degrado ambientale su Europa ed Encelado

 

 

Questa sera lasciamo Århus Fjord, a un’ora in cui sulla Terra starebbe per calare la sera, almeno nel Vecchio continente, mentre qui ci sarà luce per tutta la notte.

Quando viene issata la vela ionica maestra, la barca inizia a inclinarsi verso destra e la drizza sbatte e vibra. Mi trovo sulla Noorderlicht, un overpack di 150 piedi provvisto di motore a scissione costruito nel 2710. Viaggiamo in direzione nord nell’oceano di Barents verso i giacimenti di Terbion 11 di Novaja Kolyma nell’arcipelago di Spitzbergen, fra 76 e 80 gradi di latitudine nord.

Appena lasciamo la costa e le cupole di Århus Fjord il mare inizia ad ingrossarsi. La nostra spedizione è composta da venti persone, un gruppo eterogeneo di scienziati e naturalisti proveniente da Terra e da colonie dello Spazio Interno. Lo scopo dei viaggio è cercare di comprendere meglio la ricchezza e la fragilità di Europa. Vogliamo vedere coi nostri occhi e capire se e in che modo l’ecopoiesi nucleare che ha in parte disciolto i ghiacci del satellite abbia potuto influire sull’ambiente globale.

C’è luce per tutto il pomeriggio, e anche tutta la notte. Il mare si fa sempre più minaccioso. Oltrepassiamo l'ultimo radiofaro della colonia norvegese di Hinnøya, costruito su uno sperone, per poi puntare ancora più a nord. Le onde ormai sono alte come case. In olandese, il nome della nave, Noorderlicht, significa "Luce del Nord" ma siamo circondati dal cielo grigio scuro e dall'oceano. Dato che saremo costretti a navigare per almeno due giorni e due notti di fila, i turni di guardia vengono assegnati dal capitano, Jan e da Kerstin, la sua ufficiale in seconda, entrambi di Luna City. Il mio turno va da mezzanotte alle tre.

Quando salgo sul ponte, l’oceano è talmente agitato che devo imbracarmi. Basterebbe un attimo per finire oltre il parapetto. E chi se ne accorgerebbe? Tutti soffrono di mai di mare, anche il mio stomaco sta per arrendersi, maledizione! Procediamo a fatica, col vento che soffia a 18 nodi. Il Noorderlicht geme, scricchiola, trema. Sto troppo male per scrivere. Montagne d'acqua mi cadono addosso. Il pavimento sussulta. Le paratie minacciano di cedere.

Il freddo penetra la tuta in episint, sto tremando. Ho dormito seduta nella cabina, ma sono tornata sul ponte appena ho potuto. La prua sbatte violentemente. sballottata dalle onde, in basso e poi verso l'alto. Riusciremo ad arrivare da qualche parte?

Vento da nord, siamo costretti ad ammainare le vele. Quando il soffio riprende da nordest, le issiamo di nuovo. La temperatura è scesa a - 145 gradi. A mezzanotte sono ancora di turno. Il ponte è ghiacciato. Mi avvicino al servotimone, ma scivolo. La barca si è tuffata in avanti all’improvviso e cado rovinosamente a terra.

- Nell’oceano di Barents è sempre così, Carla - spiega ridendo Jarno il “marziano”, come lo chiamiamo - Si chiama la “danza del diavolo”.

Qualche momento più tardi i flutti riprendono il loro normale rollìo. Il caos sembra improvvisamente svanito e la distesa delle acque assomiglia a un enorme torace che respira placido.

 

 

Sono passati tre giorni e non so più se è mattino o pomeriggio.

- E’ quasi mezzanotte- dice Mika, occupata sul ponte di manovra. Mika si occupa del controllo dei giroscopi sulla Stazione Krshna, in orbita intorno a Titano.

Quando le chiedo come ha iniziato a navigare, mi risponde:

- Sono nata su una nave – Mio padre comandava overcraft transoceanici su Terra e portava con sé tutta la famiglia – ridacchia. Poi indica un miraggio bianco davanti a lei.

- Terra! Ecco Narwhal lsland!

Secondo la carta nautica, siamo a una latitudine di 74-75 gradi nord. La massa inconcepibilmente enorme di Giove occupa un quarto abbondante dello spazio visivo; la Macchia rossa ci fissa tra le turbolenze gassose della superficie del pianeta come l’occhio di un ciclope. Il pack qui sembra fatto di linee gialle smembrate e oblique, capaci di cogliere sfumature e scintillii, nell’onnipresente luce che non ci abbandona mai.

Lentamente l'isola prende forma davanti a noi: è contornata di alte creste di ghiaccio; il lato occidentale è ricoperto di neve e nella parte orientale si schiudono bianche lingue gelate, ciascuna più bassa di quella sovrastante. Nella debole luce del sole che illumina le scogliere si intravedono profondi solchi traslucidi.

Il motore ionico tace, le sue vibrazioni pulsanti non attraversano più la mia tuta e tutto piomba nel più assoluto silenzio. Il tempo, come lo intendiamo noi, ce lo siamo lasciato alle spalle.

Sono le tre del mattino di non so più quale giorno.

Ci lasciamo trasportare verso occidente, cercando di farci largo nei ghiacci; dove l'acqua del mare ha eroso i bordi dell'isola, si sono formate enormi caverne.

 

 

Dormo un paio d'ore, poi mi alzo. Ci stiamo dirigendo di nuovo verso nord, è uscito un pallido e remoto sole. Ivan e Saleh, i due oceanografi terrestri, misurano i valori di calore e salinità: è esattamente in questo punto che la calda corrente artificiale prodotta dai sistemi di ecopoiesi si insinua lungo la costa occidentale di Narwhal Island, mentre la gelida corrente proveniente da nord, spazza la costa orientale. Dove le due correnti si incontrano, l'acqua calda, più densa e salata, si gonfia sotto quella più fredda e gira, dando inizio alla circolazione. Se il clima dovesse continuare a riscaldarsi e il pack continuare a sciogliersi, come si attendono i responsabili del Progetto Shiva, l’aggiunta di enormi quantità di acqua sufficientemente temperata negli oceani provocherebbe lo sprofondamento progressivo dei ghiacci ed Europa finirebbe per scongelarsi del tutto, rendendo più semplice, e quindi meno dispendioso, il prelievo di Terbion 11. Sulla Noorderlicht si discute: a tutt’oggi la crosta di ghiaccio è disciolta per il venti per cento, ma verso dove stiamo andando? Ghiaccio e neve riescono ancora a disperdere nello spazio il calore prodotto dall’energia idrotermica prodotta dalla gravità di Giove e degli altri satelliti, mantenendo fredda la superficie. Ma se tutto il ghiaccio e la neve dovessero sciogliersi, Europa potrebbe diventare come una spugna e trattenere il calore. Le forme di vita ameboidi – che qui qualcuno chiama plancton - potrebbero evolversi in organismi più complessi. Ma è questo, è davvero questo che ci riserva il futuro?

 

 

Non riesco ancora a capire quando finisce un giorno e quando ne inizia un altro, l’oceano non ha punti di riferimento. Forse è mattina. Il termometro dice che siamo 130 gradi sotto lo zero. A vele spiegate, con una distesa gelata davanti a noi, viriamo ad ovest. Iniziamo a intravedere l'isola di Spitzbergen. Il mondo ritorna di nuovo solido, anche se sappiamo bene che si tratta di una solidità illusoria. Il nome Spitzbergen significa "Montagne appuntite" benché su Europa i rilievi non superino mai qualche centinaio di metri; mentre seguiamo la costa occidentale, più a sud vedo picchi e tratti di riva bassa che terminano in punte spumeggianti.

 

 

Io e altri nove usiamo una scialuppa per sbarcare sull’isola e raggiungere Nunavut, La Nostra Terra, dove una colonia di eschimesi ha deciso di insediarsi ormai una cinquantina di anni fa: i primi coloni abbandonarono le miniere di Terbion 11 a Bjorn Berg 4 in rotta con la Compagnia sulle strategie di sfruttamento del sottosuolo di Europa: Il Terbion 11, rarissimo in tutto il sistema ma presente su Europa in quantità praticamente illimitata, divenne ben presto il propellente ottimale per i salti a velocità Lux 2 che avevano reso possibile l’esplorazione e la successiva colonizzazione dello Spazio Esterno. Dopo anni di forte conflittualità, in cui l’ingegner Disko Saalik aveva dato voce al malessere degli operai e dei tecnici rispetto a quello che molti ritenevano lo scempio ambientale sul satellite, gli eschimesi - scienziati, tecnici e operai specializzati - si scoprirono affascinati dalla possibilità offerta da Europa di recuperare stili di vita atavici, in una sorta di patto di non aggressione reciproca con il satellite che generosamente li ospitava. E se ne andarono, rinunciando ai guadagni di una vita di lavoro in cambio di attrezzature e materiali ottenuti a prezzo triplo del valore effettivo. La Compagnia li lasciò fare, sicura che li avrebbe presto rivisti tornare con la coda tra le gambe, schiantati dalle condizioni ambientali più che proibitive. Ma glii inuit – come tornarono a chiamarsi – resistettero: Nunavut prosperò e le sue colture in serra approvvigionarono persino le basi della Compagnia, costretta ad acquistare da Saalik e dai suoi piuttosto che rifornirsi attraverso i costosi e poco frequenti trasporti dallo spazio interno.

 

 

Una specie di cascata ghiacciata precipita a poche centinaia di metri da noi, in assoluto silenzio: su entrambi i lati ampie vallate bianche si confondono col ghiaccio dei fiordi: la terra e il mare appaiono indistinti, completamente avvolti dalla circolazione dell’acqua e dai campi magnetici. Come è possibile definire Europa una terra desolata, quando davanti ai miei occhi vedo la grande potenza del ghiaccio, la sua bellezza dalle ali sfrangiate?

Un iceberg blu notte va alla deriva; per la prima volta niente turni di guardia: sento un po’ la mancanza dell’isolamento di quelle ore adesso che c’è da condividere lo spazio esiguo dell’igloo ad espansione che si è sviluppato come un’escrescenza dalla scialuppa. Mi sento come se avessi tradito la Noorderlicht e l’oceano. Dormiamo sulla superficie solida del pack: strana sensazione, dopo giorni di navigazione: sembra di cadere, non ci sono più le onde a tenermi in piedi. Riconosciamo i nostri corpi, per qualche ora liberi dalle ingombranti tute termiche. Respiriamo aria meno viziata. Finalmente riusciamo a rilassarci, dieci persone legate da una cameratesca convivialità dopo una cena rischiarata dalle fotocellule di un caldo colore arancio. Mi affaccio all’oblò della tenda: il buio assoluto è un muro impenetrabile e vagamente opprimente. Domani dovrò cominciare il carotaggio dell’area ai piedi di Nunavut.

 

 

Appena poggio la testa sul cuscino, all’improvviso lo sento: un muggito, o piuttosto un ululato o tutt’e due insieme… La scienza dice che si tratta del lamento dei ghiacciai che si sciolgono lacerandosi; gli inuit raccontano invece dei richiami d’amore di giganteschi leviatani, che giurano di aver visto – benché molto raramente – nelle acque di fronte all’isola. Eccolo ancora, un po’ più distante: un gemito profondo e struggente che fa vibrare a lungo la banchisa. Non abbiamo idea della sua provenienza, tanto la melodia è diffusa e apparentemente ubiqua. I suoni continuano ad attraversare il velo di fibre sintetiche che ci separa dall’esterno e dal una morte pressoché istantanea, forti e chiari: note che partono basse e ascendono la scala tonale lentamente, seguite da altre modulazioni e altre ancora. I leviatani. Che si staranno dicendo? Parlano forse di solitudine e di passione, come noi.

 

 

La mattina dopo arriviamo a Nunavut: veniamo accolti da due uomini su slitte a impulsi dalle tute variopinte, armati di fucile (per difendersi dai provocatori della Compagnia, ci diranno poi)

- Iiaali, uvanga Kaujajuk! (Benvenuti, il mio nome è Kaujajuk!), ci saluta sulle nostre frequenze in lingua inuktitut quello che sembra il capo.

Arranchiamo a fatica nella neve fino alle prime cupole dell’abitato. Ci accolgono ristorandoci con caffè bollente, tè, vodka e biscotti.

Mi consegnano con cortese fermezza i risultati recenti dei loro carotaggi, facendomi notare con la stessa decisione l’inutilità di eseguirne di nuovi. E’ evidente che – nonostante le nostre ripetute dichiarazioni di neutralità - ci vedono come emissari della Compagnia. I carotaggi evidenziano mutazioni di alcuni organismi unicellulari indotte – afferma il loro biologo con un’espressione severa – dall’irradiazione nucleare eccessiva del Progetto Shiva e delle deiezioni industriali degli stabilimenti estrattivi.

Makivik, il responsabile delle coltivazioni, ci accompagna a visitare le serre idroponiche, spiega con una certa dose di orgoglio la tecnica delle colture, la manutenzione degli impianti e lo stoccaggio dei raccolti. Le risorse idriche consistono nell’acqua ottenuta attraverso la fusione e il filtraggio dei ghiacci. Le serre si estendono a perdita d’occhio, illuminate e riscaldate da sfere che abbacinano alimentate dal Terbion 11 – si rammarica sospirando la nostra guida - sospese a diversi metri di altezza da un dispositivo ad antigravità. L’aria – siamo stati invitati a toglierci il casco – è tiepida, umida e piacevolmente profumata di frutta; restiamo muti, sopraffatti dalla distesa lussureggiante, dalla estrema varietà di colori, dopo settimane di bianco e di blu.

Quando viene il momento di andarcene, bambini e donne dagli occhi a mandorla ci fissano, divertiti e curiosi. Una bimba paffuta e rosea mi guarda negli occhi con una buffa smorfia: ci scambiamo un saluto imbarazzato, a distanza. Poi prende coraggio e grida: – Tavvauvusi! (Arrivederci a tutti voi!).

 

 

Sono le 3 del mattino e sono di turno. A volte di notte mi è capitato di dover tenere sotto controllo gli iceberg, e oggi è una di quelle notti: l’orizzonte qui ne è letteralmente pieno. Il paesaggio in disgelo si articola in lingue di ghiaccio e blocchi grandi e piccoli separati in forme poligonali. Seduti sul ponte, la costa si svela allo sguardo. Novaja Kolyma, vecchia città mineraria russa, la prima, fondata sessant’anni fa, ancora attiva grazie agli introiti colossali del commercio del Terbion 11.

Un iceberg capovolto e morente spinge malinconicamente le onde oleose e iridescenti verso la riva gremita di moduli abitativi e infrastrutture industriali ed estrattive.

Ogni attimo della vita è in fragile equilibrio: siamo giunti alle porte della Nuvola di Oort ma continuiamo ad ignorare la fragilità della terra, del ghiaccio, dell'aria, dell'acqua. Persino di noi stessi.

Durante i prelievi Jason, australiano, esoceanografo e gran viaggiatore, dice:

- Qui il ghiaccio si conserva ancora meravigliosamente bene, ma l'oceano no. E senza un mare in perfetta salute, l’ecosistema di Europa rischia il tracollo. I leviatani – dice sorridendo - hanno bisogno del plancton. Il plancton ha bisogno di acque pulite. Devono essere lasciati in pace.

Chissà che ne pensano gli alti papaveri della Compagnia…?

 

 

Siamo al termine dei nostro viaggio. In due settimane avremo percorso oltre 1000 miglia. Ormai ci siamo abituati al moto ondoso. Discutiamo ancora delle variabili legate al riscaldamento e alla modificazione dell’ambiente di Europa. In che misura è un processo controllabile? Quanto è legato alle sostanze inquinanti create dall'uomo derivanti dagli imponenti scarichi industriali di Novaja Kolyma che abbiamo campionato? Ted ha calcolato quanto i ghiacciai delle Spitzbergen si sono sciolti soltanto da quando abbiamo iniziato la nostra navigazione, e il risultato è impressionante.

 

Radiofaro di Belisund. Latitudine 78 gradi nord. Acqua cristallina. Gli iceberg sono grandi vassoi argentati che ci riportano a casa. Cominciamo a navigare nell’ampia frattura di Århus Fjord.

D’un tratto una vibrazione leggera, una nota che… parte bassa e ascende la scala tonale, lentamente. Tendiamo l'orecchio e restiamo in ascolto, guardandoci stupiti ed emozionati negli occhi.

Dan, il navigatore, scruta lo schermo, ma poi si precipita all’esterno, come tutti noi. Gli occhi degli uomini sono attratti dal candore venato d’azzurro del pack, percorso da sguardi febbrili. Sulla strada che ci riporta a casa le melodie incantate ci accompagnano fino ad un passo dagli attracchi. Yumiko, la giovane addetta alle comunicazioni, ha le lacrime agli occhi. Le appoggio sul casco la cuffia dell’ecoscandaglio che rimanda tristemente l’eco del nulla sotto di noi; poi lo spengo e la lascio ad ascoltare il canto dei leviatani.







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