Da GLASS CITY
La scatola spalanca verso nord. Confina con la camera dello storpio e degenera in una sconfinata raucedine d’ombra. E’ quadrata con un bel blu alle pareti. Una lampada sostenuta da un filo inerme, cade a piombo dal tetto grigio. Ad eccezione di una cella frigo, 400 litri, e di un recipiente in ferro e zinco, la scatola non contiene nulla. E’fredda ed illimitata. Qua e là erompe un brusio di vita ed un qualche scorzame di luce.
Io e Silvio ne condividiamo i segreti ed il tempo. Il pavimento è liscio, di marmo bianco carrara, con sparute bucce nere. Dilaga nella sua medesima prospettiva a fronte di una solitudine perfettamente insulare. Si legittima nell’azione infaticabile dell’ombra, con parsimonia. Non trasuda, né rilascia echi. Da vent’anni ne uso spazi e splendidi livori. A Silvio ne ho concesso il maggiore degli arbitrii. A quello non gli è concesso d’immaginarne neppure la forma.
La scatola gli è proibita.
Non si mischia alle passioni od alle circostanze della storia, non ha alcunché da raccontare, perché nel suo utero non si manifesta quell’incerta eternità. La sua natura vive quando è la morte a farle visita.
“Cosa fai qui tutto solo?”
Era come sospeso. Appeso ad un’invisibile verticale. Si mosse piano verso quella bolla di ferro come se avesse una qualche capacità di giudizio.
“Ne osservo il senso. Mi sfugge la natura. Chi la regola? E chi la domina? E del dominio, chi ne è il controllore? E’ figlia di una norma? E a quale precetto si uniforma? E i suoi vincoli? E a quali restrizioni e a quali sanzioni si assoggetta?
Ma soprattutto: io sono vivo?”
Non mi scomposi. La scelleratezza della vita, talvolta, impone una qualche severità di giudizio anche a costo d’apparire crudele. Il genere umano quando perde di vista uno di quegli orizzonti che ne affrancano le tempra per i sogni che contiene, risulta incline a misurarsi con la profondità delle proprie tracce. E tra la vita e la morte nasce quell’insanabile conflitto che genera, tra i più stupidi, la modestia della rivolta: non a caso si ha paura di morire.
“Ciò che vedi è, esiste e resta. Dalla circostanza nasce e si evolve la dottrina. La legge ne è una conseguenza. Ma cos’è dunque la legge? E’ il più solido dei rimpianti, perché, credimi, è questa ad aver indotto l’innocenza a misurarsi con la colpa. Chi ne controlla il dominio è la morte che nella legge si sostanzia. Le sanzioni come i vincoli, adulterandone la natura, ne recuperano soltanto l’origine. Ciò posto, figlio mio, ne discende che nel tuo obitorio la legge si dissolve già dal suo inizio: nella nostra scatola non v’è legge alcuna che possa alterarne l’intima sostanza.
Lei come te… è. Viva… come te, bambino mio.”
So che comprese perché si allontanò dalla bolla preferendo alla modestia del conflitto, l’illusione, anche se convulsa, della propria esistenza.
Me ne compiacqui. Ero sua madre.