Le ali della fantasia/2
"Thule" n. 2, ed. Solfanelli, '82, 260 pagg., 6.000 £; prezzo remainders: 20,33 €; © by Marino Solfanelli Editore
FANTASY
Il secondo volume di questa serie dedicata ai finalisti del premio Tolkien comprende dieci racconti, così come il primo; a questa seconda edizione hanno partecipato 38
autori con 38 opere, molti meno che alla prima.
Il racconto vincitore è risultato essere "Mondo incompleto", di Lorenzo Iacobellis (anche in "La gazzetta del mezzogiorno" del 15 agosto '91; pagg. 11-37). Motivazione: "Per aver creato un mondo del tutto originale e
aver ideato una soluzione fuori dal comune per una fantasy a sfondo religioso.". Il luogo narrativo in cui si svolge l'azione è un mondo impossibile, un pianeta creato solo in parte, che è, per meglio dire, composto di due parti, una in cui regna l'organizzazione e l'altra in cui regna il caos, in cui gli elementi vagolano senza coesione, di modo che quest'ultima risulta inabitabile. Dunque fantasy religiosa in quanto basata sul mito di creazione,
sulla divinità creatrice. Il fulcro del plot sta nel mutamento sostanziale della credenza del popolo di quel luogo, in seguito alla classica quest: da dio ritenuto buono, si passa ad un Dio saputo malvagio. Le figure centrali, emblematiche, sono un sacerdote, l'ultimo di quell'antica religione, e un lestofante che propizierà, casualmente, l'inizio della quest. Il dio è a pezzi,
viene ricomposto, e, una volta completo, si rivelerà per quello che in effetti è. Gli uomini operano una scelta, preferiscono che il loro mondo resti incompleto, piuttosto che avere a che fare col dio malvagio, e operano
nuovamente il suo smembramento. Nel far ciò lacerano il mito, secondo il quale tale smembramento era stato compiuto dal dio stesso per una fantasmatica colpa degli uomini, mentre in realtà intuiscono che tale atto doveva essere stato fatto, ai tempi, da altri uomini, per il loro stesso motivo.
Secondo classificato troviamo "Mitis degli alicorni", di Gianluigi Zuddas (pagg. 39-70). Motivazione: "Per la perizia dello stile e per quel caratteristico humour fantastico che contraddistingue tutta la sua opera.". Favola magistrale, vi si possono individuare, direi, due elementi caratterizzanti; uno il protagonista, in questo caso la protagonista di cui al titolo, in età adolescienziale, che si trova ad avere a che fare con il mondo degli adulti. Il tutto, però, ed è questo il secondo elemento, è chiaramente trasposto in un'aura di favola che ne stempera le linee dure per farne risaltare maggiormente gli aspetti archetipici. Mitis è una naiade, con un potere magico molto debole, ad affrontare quello che nel mondo alternativo del racconto è considerato uno dei centri maggiori di potenza magica. Ma sarà proprio il suo amore il fattore determinante, quel quid per cui un immane scontro di forze poderose si annullerà. Dal mondo parallelo con cui è in contatto verrà, nel momento di maggior tensione, in cui si trova in maggior pericolo fisico, il deus ex machina che risolverà la situazione in modo alquanto originale e divertente, per cui solo lei avrà vissuto quegli
avvenimenti, mettendola cioè in una posizione tale da renderla, in un certo senso, in possesso di un potere che pare preveggenza, lettura del pensiero, conoscenza di cose che non dovrebbe sapere, che, nel finale, crea una
situazione decisamente esilarante.
Terzo classificato è Tullio Bologna con il racconto "La triade protettrice dell'Esarchia" (pagg. 71-103). Motivazione: "Per aver scritto con abilità una delle rare narrazioni fantastiche ambientate in un Medio Evo italiano.". Questo racconto, come si dice nella breve presentazione dell'autore, fa parte di un "ciclo narrativo imperniato su di un mondo italico alternativo alla realtà storica conosciuta", venendo così ad inserirsi con pieno merito nei tentativi di radicare nella tradizione nostrana i più frequenti topoi del fantasy, un Medio Evo italiano alternativo, insomma, in cui il nostro paese si trova suddiviso in sei Esarcati, vede, in concreto, lo sfaldamento di tale tipo di organizzazione nazionale per cui il sopraggiungere di un'unità sotto il controllo di un solo monarca. Al di là, comunque, della trama, che lascio
scoprire a chi lo volesse fare, ecco gli elementi fantastici che emergono, ad arricchire il quadro generale della storia. Dapprima l'esistenza di Omar, uno dei componenti di una nave naufragata, proveniente dall'oriente lontano, dai poteri particolari, come l'"hal", "uno stato mistico" che "dà la possibilità di vedere al di là del tempo e dello spazio."; "Omar dice che ognuno di noi ha attorno al proprio corpo un alone nebbioso dai vari colori e che, sapendolo leggere, se ne traggono parecchie
informazioni.". Su quest'ultima questione, poi, c'è da dire che, effettivamente tale alone esiste realmente; scientificamente è denominato "Effetto Kirlian", nelle religioni animiste "mana", e, in termini psicologici, come energia vitale, eros, al limite. Che poi ci sia
possibilità di leggere nel pensiero, di indovinare l'essenza di un altro essere, secondo me, è tutta questione di sensibilità; in potenza tali facoltà le possediamo tutti, il più è individuarle in noi stessi, saperle sviluppare, e, infine, utilizzare in modo adeguato. Poi, in conclusione della quarta parte, troviamo, sovrapposti, un espediente letterario di notevole interesse e la descrizione di un'altra meraviglia. L'espediente letterario è il salto di scena repentino, assimilabile all'effetto filmico di oscuramento e ripresa in un luogo differente, la meraviglia è la "pozza d'acqua" attraverso la quale il Mago Montico, assieme a Pixie, un piccolo essere, simile ad un
porcospino, fanno, per così dire, i guardoni della scena amorosa tra altri due personaggi. Il più sta nel finale, in cui compaiono due Coboldi, uno dei popoli tradizionali della letteratura fantasy, già apparsi, seppur fugacemente, nel racconto precedente, e in cui avviene una rivelazione, ovvero in cui uno dei personaggi si leva, per così dire, la maschera, e si rivela per quello che effettivamente è, un potente mago, Foteo. Il terzo mago della triade viene
nominato nell'ultimissima riga; esso è Finvarra, meta del pellegrinaggio di Montico, e mandatario dei Coboldi; nonchè già nominato dallo stesso Montico nel suo dialogo con Pixie. Per concludere, un impianto narrativo dalla coerenza
interna notevole, divertente, anche se a volte un pò troppo lento, soprattutto all'inizio. Unico particolare che non rientra affatto nella coerenza del testo, alcune battute scambiate tra Montico e Pixie: "Piuttosto vuoi dirmi quando
la collina si solleverà sui pilastri? Ormai sta per finire il periodo di Lammas e deve verificarsi la processione tradizionale della Sidhe..."; "Può darsi che non sia questa la collina che vai cercando... ma se siamo circondati
dal biancospino!". Noto con piacere la scarsa presenza dei soliti duelli; ve n'è uno solo, rapido e assolutamente indispensabile all'economia dell'opera.
Passiamo ora a visionare gli altri sette racconti, in rigoroso ordine alfabetico degli autori.
-"Incidente in Val di Lacrime", di Giuseppe Aglialoro (pagg. 105-22). La struttura di questo racconto è quella della discesa e della risalita. Si inizia in un reale
molto tangibile, un viaggio in treno, poi, ecco che dalla valigia di uno dei viaggiatori escono lamenti che attirano l'attenzione degli altri. A questo punto si ha un primo slittamento, a dire il vero molto pacato, nel fantastico,
con l'accettazione, da parte degli altri della realtà delle varie valli contenute nelle valige del viaggiatore. Il clou del racconto sta nel viaggio che uno dei viaggiatori intraprende nel mondo contenuto in una delle valigie,
quella di Val di lacrime, appunto. Dapprima vi dà un'occhiata dall'alto, poi vi precipita e vi vive diverse esperienze che, comunque, lascio totalmente alla vostra immaginazione per giocarvi. Alla fine: "...ritirata finalmente la faccia...", l'atmosfera nello scompartimento si è mutata sensibilmente, è piena di allegria. Innanzi tutto mi pare chiaro, a livello simbolico, una visione dell'arte, da parte di Aglioloro, come consolatrice, come portatrice di contentezza. Inoltre mi sembra che il titolo, e il suo svolgersi, non possa far pensare che alla concezione cristiana del mondo come "valle di lacrime". Nella parte centrale due elementi mi sono parsi rilevanti: 1) Dapprima la valle sembra completamente isolata, e poi invece non si rivela tale, ma munita di svariati collegamenti, uno dei quali mi sembra si possa individuare nella rappresentazione simbolica della presa di coscienza
individuale del proprio essere collettivo, del non isolamento. 2) Il colloquio del viaggiatore con una donna il cui marito è lontano e il successivo giungere di una missiva in cui l'uomo annuncia di essere ritornato ma di non potersi far vedere, nel quale il viaggiatore, se così si può dire, fa da consolatore, in cui non si deve assolutamente pretendere di capire le parole dette in modo
logico, poichè esse prendono significati polivalenti ed ambigui, che si incasellano nel quadro d'insieme un pò come possono, assumendo, in sintesi, una connotazione decisamente surreale.
-"L'Artiglio", di Donato Altomare (pagg. 123-51), vede invece protagonista un immortale, e, come avvenimento saliente, un popolo di inumani che invade la terra fiabesca,
costellata di maghi, belle principesse e compagnia bella. Risulta ingenuo presentando una figura di eroe decritto molto banalmente, dai connotati molto tipici. Le scene di cappa e spada sono molto frequenti, così come le
descrizioni di atti di religiosità pagana. Comunque, quello che maggiormente fa scadere il racconto, è il tono, che risulta in molti passaggi addirittura irritante nella sua figura scontata, e che spesso fa si che la tensione emotiva
necessaria a simili racconti si spezzi; in cadute stilistiche, in poche parole. Dunque un eroe descritto come semi-divino, con pensieri e preoccupazioni diversi da quelli dei comuni mortali; comunque qui non si tratta certo di una figura superomistica alla Nietzsche, per nulla, quanto piuttosto di un ricalcamento di modelli fiabeschi tradizionali. Ad un certo punto l'Artiglio si ritrova ad affrontare la battaglia nella sua posizione quasi divina, ed ha un pensiero che non può che ricordare la figura di Gesù Cristo, in cui dice a se stesso la propria umanità, e, quindi, la sua scarsa divinità. Oltre a ciò, naturalmente,
l'eterna lotta fra bene e male, rappresentata qui molto rozzamente, con l'inevitabile vittoria, qui militare, del primo sul secondo. Non manca il finale melenso, in cui l'Artiglio non può accettare l'offerta d'amore che gli
viene fatta da una dolce donna: "Tu invecchierai. Una, cinque, mille rughe disegneranno sul tuo bel viso la traccia del tempo. I tuoi lunghi capelli diverranno del colore della neve e il tuo corpo superbo sarà un ricordo
lasciato in qualche pozza d'acqua cristallina. E allora mi odierai. Odierai il mio corpo sempre giovane, odierai i miei capelli sempre scuri, odierai la mia forza inalterata.". In cui si riassumono un pò i motivi di questo mio giudizio negativo, anche se per quella notte i due si accoppieranno, in un atto che è insieme umano e fiabesco, con la certezza che poi non si rivedranno mai più a creare un'atmosfera molto particolare in cui si uniscono i sentimenti degli addii, dei rimpianti, dell'impossibilità di fare e l'erotismo puro.
Continuando la rassegna troviamo un racconto a quattro mani, "Il mantello scarlatto", di Daniele Bonetti e Valerio Donati, pseudonimo di Michele Martino (pagg. 153-84). Racconto complesso, ha il merito di avere una coerenza
interna veramente notevole, come un puzzle i cui pezzi vanno man mano al loro posto, formando un affresco di notevole portata. Cinque soli i personaggi, e nessuno principale; niente eroe, niente protagonista, ma una narrazione corale in cui le diverse armonie delle cinque esistenze si intersecano a creare un reale. Non posso fare a meno, qui, di ricordare i romanzi dickiani, di cui la
caratteristica principale è proprio questa. La struttura è molto semplice, e per di più una delle più utilizzate, ovvero un capitolo iniziale di cui non si riescono volutamente a distinguere i contorni testuali, ed uno conclusivo in cui si tirano le fila degli altri compresi nel mezzo, chiarificando e connotando contemporaneamente il prologo. Il tema utilizzato è quello classico della migliore fantasy, ovvero la quest, qui, del mantello scarlatto di cui al titolo, dai poteri eccezionali: "...esso avrebbe donato a chi lo indossava
la conoscenza assoluta di sè stessi e la capacità di intuire il pensiero altrui."; "...il Mantello dona si la conoscenza assoluta di noi stessi, ma pochi sono coloro che possono reggerne il peso, poichè conoscere la nostra vera natura significa scoprire il segreto del pensiero umano. E tale segreto, per chi non sia preparato a possederlo, è così insostenibile da provocare addirittura la morte.". Quest'ultimo passaggio mi ricorda il pensiero nietzschiano dell'Eterno Ritorno dell'Uguale unito a quello della
Volontà di Potenza, il pensiero abissale, che solo alcuni uomini possono sopportare e vivere, l'oceano del divenire con le due immense distese d'acqua del passato e del futuro, e il Superuomo assiso sulla breccia, ma non a
contemplare, come in Schopenauer, ma ad agire, a creare, in una pienezza euforica, dionisiaca, così come il pensiero della caduta del Superuomo come qualcosa di terribile, di nullificante. Se il superuomo cade, diviene nulla, in
un certo senso muore. La quest viene rivelata dall'Insegnante Fhaxe ai suoi discepoli Lalia e Ràman, a sua volta affidatagli dal Presidente del Gran Consiglio. Anche qui vi è la lotta fra bene e male, i contorni sono più
sfumati, lo scontro più convincente, e, in definitiva non ci sono buoni e cattivi, ma semplicemente il tutto è visto dal punto di vista degli eroi impegnati nella quest, e quindi che li ostacola diviene automaticamente un cattivo. Dunque magia bianca contro magia nera, e, quindi, la morale sarebbe ancora quella che uno stesso talento, uno stesso potere, possono essere utilizzati sia bene che male; è la motivazione della quest: "Per questo dobbiamo trovare il Mantello.". Le prime fasi del sesto capitoletto, poi,
provocano nel lettore un flusso di coscienza che fa risalire i contenuti del prologo, ma lasciandolo ancora nella perplessità a riguardo del suo significato, così come l'ultima fase dell'ottavo, e una del nono. A cavallo tra
pagina 181 e 182, poi, c'è una scena decisamente caotica, in cui vi è una serie di passaggi assolutamente non logici, nel senso di non visualizzabili da parte del lettore poco attento, credo che il fatto passi inosservato, visto che si
tratta di una scena cruenta e molto rapida. Poche righe più sotto, poi, assistiamo al crollo della fortezza: "Fazhe... raggiunse la piazza centrale e fece scendere il ponte levatoio. Quindi, presi i cavalli, l'oltrepassò. Non appena l'ebbe fatto, la fortezza prese a tremare, e, poco a poco, iniziò a crollare su se stessa.". Topos tradizionale della narrativa e della cinematografia sia favolistica che orrorifica; basti ricordare "Il crollo della casa degli Usher" di E.A. Poe e il finale del "Suspiria" di Dario Argento. Infine, appare una parola: "Tactysch", che viene pronunciata da Alikar ben tre volte: la prima a pagina 174, e li non se ne afferra assolutamente il senso, ed a quanto pare non lo afferra nemmeno Laha, che è là con lui; la seconda volta mentre scova il passaggio segreto che lo porterà a liberare Faxhe, il mago bianco, dalle galere
di Zelihor, il mago nero; lì sembra una parola magica, un incantesimo; la terza, quasi in conclusione, e questa volta Laha esige delle spiegazioni coi fiocchi: "Tactysch è il nome di un fiore dal quale Zelihor ricava una particolare essenza dall'aroma semplice e molto delicato, ma inconfondibile. E per quanto ne so io, egli è l'unica persona che porti addosso questo tipo di profumo. Perciò quando giungemmo alla fortezza e lo sentii, capii che era
tornato.". Altra spiegazione a ritroso dunque, ma credo che i due autori avrebbero anche potuto evitare quella seconda apparizione della parola, a meno che, in effetti, volessero così dare un aiuto in più all'interpretazione del racconto; la chiave di lettura di questo testo stà, infine, proprio nella magia della parola, nel suo potere.
Occupiamoci ora di "E da lontano giunse un cavallo", di Domenico Cerroni Cadonesi (pagg. 185-202). Dall'atmosfera densissima, ha come caratteristica saliente
quella della lentezza, degli accadimenti sporadici, che, a mente fredda e lucida, si potrebbero riassumere in pochissime parole. Un viandante giunge in paese, vede un bambino e una vecchia, poi un'altra vecchia, con cui fa un
girotondo magico, ed infine, giunge un carrettiere che lo carica sul suo carro, allontanandosi dalla scena. Il tutto avviene senza una parola; non vi è conversazione, neppure minimale; tutta la comunicazione tra i personaggi è
lasciata alla mimica, alla danza ed al canto. Vi si possono notare facilmente tre tempi, tre armonie differenti. Nella prima il sopraggiungere affaticato del protagonista, e l'incontro col bambino e la vecchia, una specie di presa di
contatto, sebbene minimale, del viandante con l'atmosfera del paese, la presenza incombente di un personaggio-simbolo, la montagna creatura deforme che sopra, sulla sinistra, lì immobile, ma presente, certamente lo sta guardando, il suo allontanarsi per poi tornare indietro a bussare alle porte e a gettare sassi sulle finestre, vanamente; soprattutto un gran silenzio, solo dodici
rintocchi del campanile. Nella seconda, la seconda vecchia, la strega, la maga, il suo aggirarsi attorno al viandante ormai addormentato, e poi il sabba, il fermarsi del tempo, le sagome inumane di sogni incompleti, un dionisismo
sfrenato in cui si respira un'aria di ebrezza senza freni, appunto, un emergere esaltante dell'es. Il sogno del viandante, la figura della prima vecchia che risale dal suo inconscio sotto forma della donna-maga. "Il tempo reale, che scorre
via senza fermarsi, ritorna all'improvviso con un colpo enorme di campana.". E quindi, infine, il cavallo, e il suo carrettiere, nel lento riemergere della luce, del giorno, nello svanire graduale della notte e delle tenebre. "Gli uccelli del mattino ora cantano tutti c'è l'intreccio di
toni, varietà di richiami; ."; "...nella luce che cresce in mezzo al canto degli uccelli sembra di momento in momento più inutile e assurdo quell'avanzo scialbo della notte.". Le movenze del carrettiere, nuovamente lente: "Il falco non gira più lassù in alto, chissà dove è sparito. Non c'è ancora nessuno per le strade, il campanile butta giù due colpi; sono le quattro e mezzo. Però nessuno, ancora nessuno.". Il viandante è nel cerchio di cenere, e il carrettiere: "...solleva un pò di fuliggine dai resti del
fieno bruciato dalla vecchia... può sembrare incredibile, ma è che voleva andare dentro il cerchio senza saltarlo.". Dunque non sogno, i resti del sabba rimangono, ma i suoi fantasmi svaniscono nel riemergere lento della luce, per
le presenza rischiaratrice di quell'uomo, del suo lavoro.
E siamo così arrivati al terzultimo racconto, "L'amico di Max", di Luigi De Pascalis (pagg. 203-15). Racconto veramente scarso, improntato su antiche
pergamene, tenuto in piedi da un pathos vecchio stile che può ricordare racconti alla Weird Tales, tipo Lovecraft, Bloch e simili, non finisce certo di convincere; rischia ad ogni piè sospinto di cadere nel ridicolo. L'inverosimilità assoluta dell'assunto iniziale, l'esagerazione dei sentimenti dei personaggi, lo rendono di difficile godimento proprio perchè non convince, rimane troppo distante dal reale, pur volendo rimanerne all'interno. Come già detto è più un racconto dell'orrore che vera e propria fantasy e per di più nemmeno molto originale; il tema del ritrovamento di un segreto seppellito da secoli in un luogo sacro dai connotati molto mistici è stato ampiamente
sfruttato. In definitiva forse il peggior racconto dell'intera raccolta.
Dopo questo buco troviamo "Canzone interrotta", di Benedetto Pizzorno (pagg. 217-36). "Tutte le sue storie, compresa questa "Canzone interrotta" possono considerarsi parte di un vasto affresco di una Terra del
futuro, crepuscolare e semideserta, in cui la magia ha preso il posto della scienza.". Così finisce la presentazione al racconto; in ogni modo ogni singolo racconto è assolutamente a se stante, personaggi e situazioni cambiano radicalmente e lo sfondo rimane uguale solo in parte. Questa storia è suddivisa in maniera molto netta in due parti. Una prima parte in cui il protagonista
giunge, assieme ad una dolce fanciulla, ad un castello diroccato, con conseguenti avvenimenti magici, e una seconda in cui tale protagonista diviene narratore, ovvero in cui racconta alla ragazza i retroscena degli strani
avvenimenti di cui sono stati protagonisti. Ciò che emerge è la rappresentazione simbolica di un amore materno molto possessivo e della conseguente ribellione-fuga del figlio, alla scoperta del mondo al di là della magica gabbia dorata. Nel racconto il protagonista narra anche di un suo
precedente ritorno, ormai uomo fatto, e della sua vittoria nei confronti della madre, che, in definitiva, è la reale spiegazione dei fatti contenuti nella prima parte. Nella simbologia chiara del racconto, con la consueta
trasposizione di situazioni psicologiche reali e, direi, tipiche, raffigurate in modo simbolico, qui, per mezzo di un mondo magico, come detto all'inizio; un bell'esempio di cosa sia la sua differenza sostanziale dalla fiaba tradizionale con morale finale.
Siamo infine giunti alla fine con "Pioggia d'estate: un'avventura", di Luciana Pugliese (pagg. 237-56). Uno "...spirito universale, e completo, indivisibile, perfetto e bifronte", decide un giorno di "...vivere
per qualche giorno tra gli uomini, provare la loro vita, sperimentare la loro esistenza", e tutto ciò gli balena nella mente dopo aver avvistato il corpo di un uomo morto. Ne prende possesso, si intrufola in esso, e scende fra
gli uomini. Ma quale il vero nocciolo della questione, quale il vero tema del racconto? Lo spirito incarnato nel corpo incontra una donna, una donna che abita da sola in una casa in un paesino isolato. Offerta di vino e di cibo, conversazione, e poi un giaciglio comodo. Lei fa la civetta, e lo spirito avverte che il corpo da lui posseduto man mano risponde a quegli stimoli: "Le mie mani erano
più svelte del mio pensiero.". Ma poi lei si ritrae, non vuole consumare fino in fondo quello che si era cominciato, e lui si risente: "E ora il mio corpo voleva qualcosa, qualcosa di preciso. Ed anch'io sentivo che c'era un
modo per essere felicissimo con una donna.". Il motivo di questa ritrosia, a parer mio, non si deve, qui, valutarlo con i parametri con cui si giudicano tali reazioni nel loro svolgersi quotidiano e umano, ma, piuttosto, come
l'eplicitarsi della sensibilità tutta femminile di lei, il suo avvertire, ad un qualche livello, non sicuramente conscio, la vera identità dell'essere con cui si trova. Lui, più che umanamente, se ne va, scappa, infuriato; lei lo insegue, ma lo ritroverà solo sotto forma di cadavere, quando cioè lo spirito sarà tornato a turbinare "in alto, ritrovando i panorami grandi, privo ormai di desideri e di pulsioni, perfetto nella (sua) completezza e nella (sua) essenza che comprendeva ogni maschile e ogni femminile.". In conclusione questo racconto racchiude, principalmente, una rappresentazione simbolica della condizione femminile: la donna è una donna matura, pienamente cosciente del
proprio sesso, che ormai ha superato lo stadio dell'invidia del pene, ed è quindi giunta a quello del desiderio dello stesso; sa di non poter volare, e così cerca di irretire l'uomo-spirito. Ben più complesso, da questo punto di vista, lui; si potrebbe, in un certo senso, parlare dell'eterna incomprensione della donna da parte degli uomini, ma, come ho già detto, qui non mi sembra molto appropriato. Attenendosi più strettamente al testo, io lo vedrei più che altro come una rappresentazione simbolica dell'uomo come creatura eterna e ciclica, immersa nel divenire spazio-temporale, in pieno volo, che nell'imbattersi in una donna, rallenta la corsa, si perde nei suoi meandri, si tormenta, si interroga e si commuove, scoprendo verità nuove ed affascinanti, quanto, a volte, pericolose. La fuga e il nuovo volo alto, infine, vedono
l'aprirsi di più porte, di più livelli; il protagonista ritorna spirito, e il lettore, l'interpretatore, si ritrova sbalzato nuovamente nel mondo reale, ove la donna è la Pugliese, e lo spirito... noi lettori.
Dunque, i testi sono quasi tutti di un livello discreto; prevalgono i nomi noti. Il tutto è introdotto da Gianfranco de Turris.
Originariamente in "The Dark Side n. 3-dicembre '87
Saggi generici sul "Premio Tolkien":
"Premio Tolkien e dintorni", di Giancarlo Pellegrin, "Dimensione cosmica" n. 5, ed. Solfanelli,
'85, pag. 32, da "Il mercatino", Trieste, 29/6-12/7/'85
"I ragazzi di fine secolo scrivono fantastico", di Oreste Del Buono, "Corriere della sera" del 4/6/'86
Gli altri volumi del Premio "Tolkien", in ordine cronologico:
"Le ali della fantasia"
questo
"Le ali della fantasia/3"
"Le armi e gli amori"
"Le ali della fantasia/4"
"Le ali della fantasia/5"
"Il nido di là dell'ombra"
"Le ali della fantasia/6"
"Immaginaria/1"
"Le ali della fantasia/7"
"Immaginaria/2"
"L'altro volto della luna"
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